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In gioco c'è il bipolarismo

Gianfranco Fini

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In gioco dopo i ballottaggi amministrativi di domenica e lunedì prossimi rischia di essere non tanto il governo, o la stessa legislatura, già scampata una volta allo stesso epilogo della precedente, cioè alla fine prematura e al ricorso anticipato alle urne, ma il bipolarismo. Che pure è l'unico frutto buono, o quasi, di quella incompiuta transizione cominciata con le elezioni politiche del 1994. Alle quali Silvio Berlusconi ebbe il coraggio e la fortuna di presentarsi con una coalizione che, per quanto improvvisata e anomala, fatta con la Lega al Nord e con la Destra nel Centro-Sud, spazzò via l'illusione dei post-democristiani del Partito Popolare di sfuggire furbescamente al bipolarismo in qualche modo generato dal referendum elettorale del 1993. Con la sua iniziativa il Cavaliere consentì agli elettori di scegliere di fatto fra due sole coalizioni, costrette dalla fisica ad essere una di centrodestra e l'altra di centrosinistra. Le cose sono andate più o meno bene nel centrodestra per almeno sedici anni grazie a Forza Italia, poi diventata Pdl con la sostanziale confluenza di Alleanza Nazionale, e al trascinamento personale di Berlusconi. Sono andate, anche se meno bene, al centrosinistra sino a quando ha potuto contare su un partito consistente come l'ex Pci e su un leader in qualche modo trainante pure lui, com'era Romano Prodi. Il quale fu condannato però a governi brevi per l'eccessiva eterogeneità e litigiosità del proprio schieramento, sia quando lo chiamò Ulivo sia quando, peccando di presunzione, lo chiamò Unione. I guai nel centrodestra cominciarono con l'uscita dell'Udc di Pier Ferdinando Casini, solitamente addebitata ad una crisi di intolleranza del Cavaliere ma in realtà imposta a Berlusconi da un Gianfranco Fini smanioso allora di contendere da solo la successione al leader della coalizione. La crisi esplose con la rottura, l'anno scorso, tra il Cavaliere e il presidente della Camera, o viceversa, come preferite. Tanto, il prodotto non cambia. E Fini, con la disinvoltura che ormai lo distingue, per niente apprezzata dagli elettori delle città in cui si è votato a metà maggio, si convertì improvvisamente dal bipolarismo al tripolarismo, andando a fare il numero due dello schieramento centrista di Casini, o addirittura il numero tre, dopo Francesco Rutelli. I guai nel centrosinistra - parola che uso sempre con fastidio perché si dovrebbe parlare piuttosto di sinistracentro - si sono aggravati con il fallimento dell'unificazione dei post-comunisti e dei post-democristiani di sinistra nel Pd. I cui vertici, incapaci di darsi una forte leadership e di liberarsi davvero dai condizionamenti dei massimalisti e giustizialisti, hanno pensato di poter vincere la partita contro il Cavaliere scommettendo contemporaneamente sui tribunali e sul terzo polo. Ma per essere giocata sino in fondo la scommessa della sinistra sul terzo polo, visti anche i suoi modesti risultati nell'esordio amministrativo di metà maggio, avrebbe bisogno di una riforma elettorale. Alla quale la Lega, delusa anch'essa dai risultati amministrativi, ha inopinatamente aperto in questi giorni tra il comprensibile interesse, o entusiasmo, delle opposizioni. L'obbiettivo della riforma che sta facendo sognare gli avversari del Cavaliere non è «il ritorno al proporzionale», come si dice generalmente, perché al proporzionale si è già tornati nelle elezioni del 2006, dopo l'abolizione della quota maggioritaria del 25 per cento sopravvissuta al referendum del 1993. L'obbiettivo è il premio di maggioranza, eliminato il quale cesserebbero l'interesse alle coalizioni elettorali e i conseguenti vincoli politici. E si tornerebbe nella sostanza, dietro la facciata di qualche novità d'importazione, magari tedesca, ai tempi della tanto odiata o bistrattata Prima Repubblica. Ma senza i vantaggi compensativi di quell'epoca, che pure c'erano, negati solo dalla pubblicistica delle epocali svolte referendarie, delle epiche pulizie giudiziarie e della demonizzazione del voto di preferenza. Ai cui mali, o degenerazioni, si è avuto lo stomaco di preferire, anche da parte di chi finge di averlo osteggiato e di volerlo ora cambiare, il sistema immondo - esso sì - delle liste bloccate. Che consente agli elettori non di eleggere i parlamentari ma di ratificare le nomine disposte dai vertici dei partiti. Il guaio è che in questa cosiddetta Seconda Repubblica mancano i partiti forti, organizzati e democraticamente condotti della Prima Repubblica. Abbiamo a destra, al centro e a sinistra partiti per niente forti, per niente organizzati e spesso per niente democraticamente condotti. Abbiamo partiti effimeri, «amalgami non riusciti», come disse una volta Massimo D'Alema del suo Pd. Abbiamo partiti personali, grandi o piccoli che siano. Di cui francamente non si riesce a immaginare non dico una corsa elettorale, ma solo un passo senza le gambe di chi li ha creati e di chi li conduce, a cominciare naturalmente dal maggiore, che è quello del Cavaliere. Al quale noi, qui al Tempo, anche a costo di essere forse scambiati per rompiscatole, intrusi, sprovveduti, ingenui e via liquidando, non ci stanchiamo da mesi di chiedere e raccomandare di occuparsene davvero, non nelle pause tra un affare di governo e uno di tribunale, e quant'altro. I partiti non basta saperli inventare. Bisogna poi avere la pazienza, e la lungimiranza, di guidarli premiando certamente chi fa bene, ma cacciando senza esitazione chi fa male. Un sistema elettorale proporzionale senza premio di maggioranza, e senza partiti forti, organizzati e democraticamente condotti, o con partiti che scambiano per democrazia le primarie non regolamentate per legge, sarebbe solo l'anticamera dell'anarchia. Rischieremmo di passare dalla Seconda Repubblica del Cavaliere alla terza o quarta Repubblica di chissà quale generale, magari con l'intermezzo di un magistrato più o meno di complemento. Ogni allusione ad una Napoli eventualmente targata de Magistris è naturalmente voluta.

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