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La sfida dell'economia non si affronta chiedendo aiuti pubblici

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La solitudine, c'insegna Emma Marcegaglia, dà brutte sensazioni. Le stesse che devono aver provato, in questi giorni, i banchieri d'affari di casa nostra, chiamati dal ministro Giulio Tremonti a dar vita alla cordata tricolore per Parmalat. Stavolta, ancor più che per Alitala, si sono mossi proprio tutti. C'era il braccio destro di Corrado Passera, ovvero quel Gaetano Micciché di Banca Imi che a suo tempo ha montato la squadra italiana per la compagnia di bandiera. Ma, a differenza di allora, si sono mossi anche i cervelli di Unicredit e di Mediobanca, oltre ad alcuni promettenti capitani di ventura, ricchi d'ardimento e d'ingegno, più che di capitali, come Giovanni Tamburi di Tip. Per non parlare della punta di diamante del ministro Giulio Tremonti, cioè la Cassa Depositi e Prestiti che, sotto la guida di Giovani Gorno Tempini, era pronta a fare, con il dossier Parmalat, il suo debutto nel mondo dei fondi sovrani. Tanta gente, insomma. Ma la sedia del partner industriale è rimasta vuota fino a ieri. Per un semplice motivo: nessuno ha voluto pagare il biglietto d'ingresso. Nemmeno le coop che, via Granarolo, erano pronte a conferire impianti industriali (e debiti) ad un'impresa che restasse dentro i recinti del mercato nazionale. Troppo poco, ma comunque assai di più del nulla in arrivo dal mondo dell'impresa privata, quello che si sente solo, fragile e troppo piccolo per competere. Ma si è fatto soffiare sotto il naso una delle poche opportunità per affrontare, nel settore agroalimentare, i mercati internazionali con dimensioni e strutture adeguate. E così l'occasione è stata raccolta dai francesi di Lactalis, decisi a non restar intrappolati in una guerra di trincea più adatta agli avvocati che al loro mestiere di industriali caseari. Di qui la loro offerta "cash": 3,3 miliardi che vanno ad aggiungersi al miliardo e mezzo abbondante già investito nelle azioni di Collecchio. Più o meno cinque miliardi tondi, da cui si dovrà detrarre la liquidità (circa 1,4 miliardi) che la famiglia Besnier, unica proprietaria di Lactalis troverà nelle casse di Collecchio. Mica troppo, nota il Financial Times, vista la posta in gioco: grazie alle nozze con Parmalat e alle precedenti acquisizioni nel Bel Paese (Galbani, Cademartori, Locatelli), Lactalis diventa la regina di latte e formaggio in Europa, con la prospettiva di conquistare gli scaffali dei supermarket di Cina, India e Brasile grazie alla potenza di fuoco di marchi e prodotti consolidati e anche alla fama, meritata, dello stile di vita italiano, che conquista il palato dei consumatori in America Latina e, da sempre, negli States. Per carità, non c'è da stracciarsi le vesti. Lactalis ha già dimostrato, anche in Italia, di essere un'impresa seria, che garantirà posti i posti di lavoro e pagherà regolarmente le forniture di latte alle imprese padane e non solo. Ma il vero valore aggiunto di un'impresa moderna, che sta nella gestione del marketing e degli investimenti in comunicazione, nelle strategie commerciali e della ricerca di nuovi prodotti all'incrocio tra scienze dell'alimentazione e della salute, fa ormai rotta verso Parigi e la Normandia. A Parma resta una bella realtà produttiva, su cui vigilano i banchieri del Crédit Agricole (regista finanziaria della scalata assieme a Socgen) solidamente installati in Cariparma. Ma nulla più. Speriamo che gli industriali di casa nostra, che si accingono a far rotta su Bergamo per gli Stati Generali indetti da Emma Marcegaglia, abbiano la decenza di lasciare una sedia vuota sul palco della manifestazione. Tanto per ricordare che, per partecipare alla sfida dell'economia globale, non basta chiedere il sostegno pubblico. Almeno qualche volta, occorre pagare il biglietto d'ingresso.

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