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Nessuno si indigna per questo

La prima pagina de il Manifesto

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In queste ore Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fiat, sta chiudendo l'accordo per il contratto dei lavoratori dello stabilimento di Pomigliano. In gioco ci sono migliaia di posti, venti miliardi di euro di investimenti, il futuro di un pezzo fondamentale dell'industria tricolore, l'automobile. Pomigliano e Mirafiori hanno i destini incrociati, la Fabbrica Italiana, il progetto Fiat per il nostro Paese, va avanti se si trova un accordo solido tra sindacati e impresa. È questa la partita importante, il resto è davvero poca cosa, ma la vibrante protesta in questo Paese continua ad essere permanente e a senso unico. Così ci ritroviamo con Fini e i finiani sostenuti nella loro tenzone contro Libero e Il Giornale dall'ormai scontato codazzo di solidarietà vociante, mentre nessuno si accorge di quel che sta accadendo intorno a Sergio Marchionne, nessuno mette nero su bianco che quel che si dice e scrive del numero uno della Fiat è pericoloso, nessuno si indigna per le frasi e le offese durissime su un manager che vuol far crescere l'azienda e investire ancora in Italia, nessuno si indigna per la prima pagina che il Manifesto ha dedicato a quest'uomo. Cari lettori, dategli un'occhiata e pensate al contesto in cui Marchionne guida la trattativa con i sindacati. Guardatela bene. Per i compagni del giornale comunista è lui il vero «pacco bomba». C'è da rabbrividire, ma nessuno si straccia le vesti, nessuno tiene alta la bandiera del progresso, nessuno urla all'attentato alla democrazia. Il dibattito politico di questo Paese non è avvelenato dai giornali, ma da un pensiero unico che presuppone il fatto non marginale che il bene stia solo da una parte e dall'altra alberghi il male. Qualche mese fa scrissi un articolo dove raccontavo come Marchionne fosse destinato a diventare il secondo Nemico Pubblico da abbattere a tutti i costi. Dopo Berlusconi, c'è il capo della Fiat e la sua idea di far funzionare l'azienda come un'azienda e non come una succursale dello Stato. Quando al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione Marchionne fece un indimenticabile discorso sulla Fiat, la missione di un'impresa e la situazione italiana nel contesto globale, capii che quello era un punto di svolta, che stava succedendo qualcosa che avrebbe cambiato il sistema delle relazioni tra impresa e sindacati in Italia, che quell'uomo aveva un'idea precisa del futuro, un orizzonte e una visione e, soprattutto, che aveva il carattere per portare questa sua idea della fabbrica a compimento. Qualche mese dopo, siamo giunti a un «nuovo inizio» di questa storia. Ma contemporaneamente è successo quel che temevo: il livello dello scontro si è alzato paurosamente, il linguaggio degli oppositori di Marchionne stilla veleno, paragoni storici improponibili, iperboli alla polvere pirica, incitamenti alla rivolta nelle fabbriche. Tutto questo è un cocktail micidiali che può innescare reazioni difficili poi da controllare. Bisogna ricordare sempre la nostra storia: l'università e la fabbrica sono state in Italia l'incubatore principale della violenza politica e del terrorismo. I paralleli storici sono ardui, lo scenario è completamente mutato, ma la globalizzazione e le sue regole - difficili da comprendere e da accettare - sono come un interruttore che accende la testa degli ignoranti: non capiscono cosa accade, non si capacitano del fatto che al vertice della Fiat, dentro la Fiat, nel cuore della Fiat, tutto è cambiato, e allora reagiscono ringhiando e minacciando sfracelli. È chiarissimo il percorso di questo scontro politico: se nessuno fa prevalere la ragione, se la sinistra non si mostra responsabile, se il Pd non ritrova il filo conduttore di una forza riformista invece di spaccarsi per l'ennesima volta, se gli agitatori delle minoranze rumorose sembrano essere gli alfieri della maggioranza, se tutto questo prende il sopravvento, ecco che le teste calde entrano in azione. Si parla di «metodo Marchionne» quasi per indicare un sistema di coercizione submano, si usa la parola «fascismo» come se si trattasse di un dispensatore di olio di ricino, si incita alla «radicalità» come dice Nichi Vendola, sottovalutando - in buona fede - che questa parola solletica la fantasia di quelli che amano risolvere le questioni politiche con le maniere spicce. Se qualcuno volesse farsi un'idea delle cose che girano su internet su questo tema, resterebbe prima di stucco e poi comincerebbe a chiedersi in che razza di paese viviamo. Mentre Fausto Bertinotti e Sergio Cofferati escono dal limbo politico per fare un'alleanza anti-Lingotto contro «la deriva Marchionne», online si dipingono scenari per cui il manager della Fiat è «l'amerikano», colui che vuole importare in Italia un modello schiavistico o giù di lì. Entriamo in un mondo paranoico per cui tutto quello che non è «collettivo» diventa automaticamente «marcio» e da respingere. È il procedimento culturale che ha finora impedito all'Italia di fare riforme radicali sempre più necessarie. La globalizzazione, un fenomeno ineluttabile, viene rifiutata a priori, in nome prima di una confusa teoria «No Logo» (ricordate? Naomi Klein) e dopo di una utopia per cui l'Europa e gli Stati devono farsi carico dei processi industriali e finanziare un welfare che i conti invece dicono sia impossibile da sostenere senza andare dritti verso il fallimento. Bene, tutto questo è realtà nel dibattito pubblico del Paese, un fatto che si tocca con mano e sul quale Marchionne si gioca praticamente tutto, forse anche la pelle. In Italia gli estremisti rossi hanno ammazzato Marco Biagi per molto meno, preso di mira Pietro Ichino e Maurizio Sacconi per il solo fatto di aver sostenuto riforme ragionevoli per garantire flessibilità e lavoro. Marchionne addirittura fa di più: scommette sull'Italia, un Paese dove il costo del lavoro è altissimo e lascia a terra altri pretendenti con le carte in regola per produrre auto a costi più bassi. Il vero rischio è quello che una minoranza irresponsabile e archeologica - la Fiom - e un sindacato ostaggio del radicalismo e in crisi d'identità - la Cgil - blocchino il cambiamento e finiscano per spegnere ogni luce sulla Fiat italiana. Ieri Marchionne era in Brasile, posava la prima pietra del nuovo stabilimento che sorgerà nel complesso industriale portuale di Suape, nella regione metropolitana di Recife. Qui a partire dal 2014 la Fiat produrrà 200 mila nuove automobili all'anno. Questo è il mondo reale: un mercato unico con poche aziende che si contendono la produzione e i consumatori. Di fronte a tutto questo il destino di Pomigliano e Mirafiori può essere grande o infinitamente piccolo. Nel peggiore dei casi, può essere semplicemente zero, la chiusura e il trasferimento delle attività produttive all'estero. Marchionne ha molti nemici ed è sbagliato individuarli solo nel sindacato duro e puro. La stessa Confindustria esce ridimensionata da questa rivoluzione, l'establishment che ha sempre vissuto degli accordicchi all'ombra della Fiat e delle due o tre grandi industrie del sistema continua a remare contro l'uomo del Lingotto. La paura è quella di perdere il potere di interdizione, non avere più i privilegi derivanti da un modello neocorporativo per cui la Confindustria per l'impresa e la Cgil per il lavoro finivano per avere lo stesso interesse. Sbagliato, ovviamente, perché i buoni accordi si basano sulla concorrenza delle idee e non sul consociativismo al ribasso. Come ha scritto Francesco Forte sul Foglio, Marchionne sta picconando questo sistema e fa «cadere il Muro di Berlino della vetusta concertazione del 1993». Ecco perché viene dipinto come «il pacco bomba». E nessuno si indigna, nessuno fa una piega. L'accusa cade nel silenzio generale di chi pensa di cambiare la storia con uno sciopero generale.  

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