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I fantasmi di Bersani

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Pierluigi Bersani parla alla manifestazione del Pd di Roma

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Pierluigi Bersani questa volta non ha scuse. Piazza San Giovanni è piena. Lui è l'unico leader del Pd a salire sul palco, (tutte le altre «prime donne» - da D'Alema a Veltroni, da Chiamparino a Renzi - sono dietro e, per un giorno, si impegnano a sembrare tutte d'accordo). Vendola, come richiesto, non c'è. Il popolo democratico è tutto per lui. La scena è perfetta. Davanti ad un pubblico simile e dato il particolare momento della vita politica del Paese, dal segretario del più grande partito di opposizione ci si aspetterebbe un unico messaggio, urlato ai propri sostenitori: «Il governo non ha più i numeri. Andiamo a votare e torniamo al governo!». Punto e basta. Tutti a casa. E invece no. Il buon Bersani, nel suo lungo discorso, le parole «elezioni» e «voto» non le pronuncia neanche. Mai. L'esordio non è proprio quello di un leader "capopopolo": la piazza scandisce in coro «Ber-sa-ni, Ber-sa-ni, Ber-sa-ni» e - immancabile - «Chi non salta Berlusconi è» e lui, intimidito - e senza saltare peraltro - riesce solo a dire: «Dai, cominciamo, che qui fa freddo». Il segretario alla fine prende coraggio: «Care democratiche, cari democratici - esordisce - siamo tutti qui per dare un messaggio di fiducia e cambiamento, Berlusconi deve andare a casa, ci vuole un passo avanti e l'Italia deve togliersi il berlusconismo dalle vene». Sì, d'accordo (si fa per dire), ma come? Un cartellone esposto in piazza recita «Caro Babbo Natale, siamo stati buoni. Portaci via Berlusconi!».  Sarà questa la strategia «politica» dei democratici? «Siamo a pochi giorni da un passaggio cruciale in Parlamento - ammette Bersani - Può affacciarsi la possibilità di sancire formalmente la crisi politica del centrodestra». Andrà come andrà, il segretario democratico se ne prende il merito: «Sarà finalmente ora di dire che se siamo arrivati a questo c'è molto del nostro lavoro - spiega - Abbiamo piazzato la sfiducia nel momento giusto e non come fanno le tifoserie un giorno sì e l'altro pure». Il popolo democratico lo applaude. Lui prende coraggio: «Noi - conclude - ce l'abbiamo la patente per fare l'opposizione, perbacco! Non abbiamo bisogno di maestri che ci tirino la giacca». Gli attacchi al governo proseguono. Bersani non ha dubbi: «Il premier deve andarsene». Il punto, però, è che «in questo momento serve responsabilità». (Tradotto: non servono le elezioni). «Ha fatto tutto lui - spiega - ha fatto il partito più grande d'Italia salendo sul predellino di una macchina e adesso parla di ribaltone. È lui che si è ribaltato». (Tradotto: speriamo in un governo tecnico). «Ma sia chiaro - aggiunge - se capitasse mai (di andare al voto, ma lui non lo dice, ndr) ce la giochiamo. Ce la giochiamo e vinciamo», azzarda. «E se mai toccasse a me (di fare il candidato premier, ma figurati se si sbilancia, ndr) non ci sarebbe mai il mio nome sul simbolo. Non dobbiamo suscitare passione per una persona ma per la Repubblica», strilla. A mancare del tutto è anche ogni riferimento possibile a Fini. Dopotutto sarà anche un po' «merito suo» se martedì si vota la sfiducia al Cav. Ma, forse, una piccola dedica a Gianfry c'è proprio nel finale: «Anch'io ho il mio sogno - conclude Bersani - il sogno di un Partito, il Partito Democratico, che possa finalmente dire all'Italia, parafrasando una bella canzone e una grande trasmissione televisiva: "Vieni via, vieni via di qui, vieni via con me"». In effetti, il discorso del segretario Pd ricordava gli elenchi letti da entrambi in tv.

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