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La parodia del "Caf"

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Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini

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Ve lo ricordate il "CAF"? Era quel patto segreto, stipulato tra il segretario del Psi Craxi, Andreotti e il nuovo segretario dello scudo crociato, Forlani? L'accordo venne sancito in un incontro - era il 13 giugno 1989 - tra i segretari della Dc e del Psi, in un camper nell'area dove si svolgeva il congresso socialista a Milano. L'accordo voleva essere una nuova combinazione di potere che aveva per fine non soltanto la blindatura della maggioranza del pentapartito e della collaborazione tra socialisti e democristiani, ma anche e, forse, soprattutto la spartizione delle cariche istituzionali a cominciare dalla presidenza della Repubblica. Si sa come andò a finire. Nessuno dei tre riuscì a salire al Quirinale e la prima Repubblica finì travolta dai giochini da basso impero e da Tangentopoli. A conferma di quanto diceva, con somma saggezza, Chateaubriand e cioè che "quasi sempre, in politica, il risultato è contrario alle previsioni".   Adesso siamo in presenza di un nuovo "CAF", più ridotto (gli attori sono solo due, Fini e Casini) e meno significativo per la statura politica dei protagonisti, la quale non è certamente comparabile a quella del trio originale. Ha fatto bene, Berlusconi, a denunciare le ambizioni di potere e i sogni dei due capipartito - conquista della presidenza del Consiglio e della presidenza della Repubblica - che i rumours parlamentari e giornalistici già da qualche tempo accreditavano senza che si trovassero, da parte di chi ne parlava con aria da cospiratore, il coraggio e l'onestà di metterlo per scritto. Ha fatto bene Berlusconi perché, in tal modo, ha denunciato come un certo mondo, nato all'ombra di una prassi parlamentare fatta di intrighi e manovre oscure, si ostini a considerare la politica soltanto come una professione adatta a conquistare poltrone, a costruire rendite di posizione per se stessi e per i propri sodali. Senza preoccuparsi affatto né degli interessi veri del paese né tanto meno della bontà della legislazione da approvare. E ancor meno del parere degli elettori. Che questa sia la verità lo dimostrano i fatti degli ultimi giorni e le strategie di piccolo cabotaggio messe in atto dalla ciurma degli oppositori di complemento. I quali si agitano senza una linea precisa che non sia quella di mettere in difficoltà il governo. Il tutto, però, cercando di evitare che il governo stesso possa cadere effettivamente perché la sua caduta potrebbe avvicinare la prospettiva concreta e (non a torto) temuta di elezioni anticipate. È una strategia di logoramento della quale fanno le spese gli stessi lavori parlamentari dal momento che i disegni di legge sono soggetti a modifiche spesso solo strumentali per creare difficoltà al governo. È una strategia da incoscienti, che si fonda su una "guerriglia" parlamentare, che poco si cura dei danni collaterali che comporta. E che è scoperta. Quando, per esempio, il governo è stato battuto su un emendamento di Futuro e Libertà, l'ineffabileGranata è apparso davanti alle telecamere non per dichiarare che il suo gruppo era riuscito a migliorare il testo del provvedimento di legge, ma che con quel voto aveva dimostrato di essere determinante.   È solo uno dei tanti esempi. Fino a che punto potrà durare questa strategia del ricatto permanente e del logoramento continuo? Il sistema politico non la reggerà a lungo, anche perché essa non trova consenso presso quei milioni di elettori che, per la prima volta nella storia del paese, hanno dato un'indicazione inequivocabile, per una richiesta di governabilità. Il ritorno dei giuochi da "CAF" sul modello della prima repubblica è un passo indietro che rischia di essere pagato caro. Da tutti.  

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