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La diplomazia felpata è stata seppellita

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La figura del diplomatico e la stessa attività diplomatica, per moltissimo tempo, hanno evocato passi felpati, salotti ovattati, ricevimenti di gran classe, sorrisi e ammiccamenti tra i brindisi. È l'immagine romantica e stereotipata di una professione - che, per usare l'impertinente definizione di Ambrose Bierce, altro non è se non «l'arte patriottica di mentire per il bene del proprio paese» - quale veniva proposta dalla grande letteratura dei secoli passati: una immagine di lustrini e di scintillii che faceva fremere Emma Bovary, prigioniera della vita di provincia, ne solleticava il latente erotismo e la portava sulla strada senza ritorno del peccato. Il «segreto» e la «riservatezza» - lo si insegna ancora nella parte teorica dei corsi di storia delle relazioni internazionali - costituivano una caratteristica inderogabile e indispensabile della diplomazia. In questi ambienti e in questo mondo, come si legge ancora nei manuali della materia, è necessario saper parlare bene, ma è indispensabile saper tacere. Già da tempo tutto ciò è entrato in crisi, complici in gran parte i nuovi e sempre più rapidi mezzi di comunicazione, la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione informatica nonché la prassi delle conferenze al vertice di capi di stato e di governi nonché di ministri degli Esteri. Alla «crisi» della diplomazia tradizionale faceva da riscontro la ricerca di un nuovo e diverso «futuro» per l'attività diplomatica. Oggi, di colpo, con le rivelazioni di Wikileaks lo scenario tradizionale nel quale si sviluppava l'arte diplomatica è cambiato. Ha detto una cosa molto giusta il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, quando ha parlato di «11 settembre della diplomazia». Già. Perché il problema non è solo e non tanto quello del contenuto delle informazioni riservate o confidenziali della rete diplomatica americana rese pubbliche, quanto piuttosto il venir meno del principio cardine della riservatezza sul quale si fondavano la raccolta di notizie e le scelte strategiche della politica estera degli Stati Uniti. Le conseguenze dell'atto di pirateria informatica di Wikileaks - è stato osservato da tutti gli analisti - saranno enormi quanto meno perché creeranno imbarazzi, susciteranno o accresceranno diffidenze tra paesi anche alleati, daranno corpo a sospetti e animeranno speculazioni politiche di basso conio e infimo livello. La diplomazia del futuro, dopo questo caso, si annuncia più faticosa e difficile. Al di là degli aspetti politici della questione, c'è, poi, un altro punto che merita di essere sottolineato. Una questione che riguarda soprattutto gli storici. Questi si trovano, all'improvviso, a dover fare i conti con una valanga di materiale documentario grezzo che li costringerà a rivedere giudizi, ipotesi di studio, valutazioni critiche. Esulteranno, certo, molti degli appartenenti alla corporazione degli studiosi di storia, i quali hanno sempre lamentato il fatto che gli archivi pubblici - soprattutto quelli relativi alla politica estera o alla politica di difesa o quelli secretati per motivi di sicurezza nazionale - fossero soggetti a legislazioni restrittive. Finalmente, diranno, è giunto, sia pure in via surrettizia, il momento della trasparenza. Ma - domandiamocelo senza preconcetti - quanto è accaduto è davvero, per gli storici, un bene? O non è, piuttosto, un male? Già, perché, per una seria analisi storica, i documenti non sono tutto. Bisogna, con equilibrio, saperli leggere, confrontare, contestualizzare. E come è possibile farlo se questi giungono a ondate, via etere, relativi a un solo periodo, mentre non se conoscono, per esempio, i precedenti? O altri, relativi al medesimo periodo, rimangono sconosciuti? Gli storici, sulla base delle rivelazioni di Wikileaks, potranno sbizzarrirsi a ripensare la politica americana, per esempio, della presidenza Bush nei confronti dei paesi dell'«asse del male» o, ancora, nei confronti dei loro alleati europei o dei loro competitori. Ma siamo davvero sicuri che siano in grado di scrivere una storia attendibile? O non piuttosto una storia sempre più ancella della politica? Il timore, insomma, è che le rivelazioni di questi giorni siano non solo «l'11 settembre della diplomazia» ma possano diventare anche «l'11 settembre della storiografia». Quel che è certo, in ogni caso, è che esse cambieranno il mondo. E, con esso, tanti equilibri troppo a lungo considerati immodificabili. E lo faranno a una velocità incredibile, quella della nuova tecnologia.

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