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Le ecoballe dei Faziosi

Fabio Fazio e Roberto Saviano in Vieni via con me

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Il Grande Circo antiberlusconiano s'accende ogni giorno della settimana in prima serata sui canali della televisione pubblica. Ogni lunedì abbiamo il piacere di vederlo all'opera nella sua espressione più sfolgorante. Il copione è consolidato, sedici anni di propaganda perdente hanno oliato a dovere la macchinina del soviet culturale. Appena compaiono sulla scena la camicina bianca e la cravattina smilza di Fabio Fazio capisci che i Giusti a Prescindere si daranno un gran daffare anche stasera. Sono talmente chic, rarefatti e plaudenti che il dubbio non può sfiorarli. Non camminano, ma levitano. Non parlano, si raccontano. Non guardano, si specchiano. «Vieni via con me» è la proiezione all'ennesima potenza di un progressismo che si crede talmente avanti da non vedere più neppure la strada che percorre. Sempre dritto. Contro il Cavaliere nero e per un mondo migliore. Uno spot della Nutella condito di verbalate. Ma rispetto a Santoro e Travaglio qui siamo più avanti. Perché l'entertainment prescinde da fatti e misfatti. Prendete Saviano, fa una tiritera barbosa sulla «monnezza» napoletana, ci racconta cose che i cronisti partenopei - quelli che stanno sul marciapiede - descrivono tutti i giorni, ma sorvola su un fatto incidentale: la gestione dei rifiuti a Napoli è tutta intestata al centrosinistra, ai Progressisti del Bidone. Il Saviano nazionale invece ieri ha deciso di spiegare al popolo la storiella del per come e perché i rifiuti sono un business. Sai che novità. Il ventennio Bassoliniano invece è con il silenziatore. Rosa Russo Iervolino idem. Il bestsellerista non li degna di attenzione, poverini. E così la puntata va a colpi di ecoballe, assolve la sua missione fondamentale, non perde quello che Saviano definisce «l'elemento centrale della narrazione», cioè il progetto politico che sta dietro questo programma: dipingere un'Italia buona (vi lascio immaginare quale) e un'Italia cattiva (scatenate la fantasia). Ma prima di Saviano c'è il pifferaio del programma, il bravo presentatore, Fazio. Il distillato di un mondo che si autoincensa. Siamo noi. Siamo qui. Siamo eroici. Siamo intelligenti. Oh, che bello applaudire noi stessi in questo studio. Roteare gli occhi e bearsi del successo. Una sbornia autocelebrativa. Il rumore di fondo che lo accompagna è quello del cingolato della propaganda. Quando con sguardo da profeta auspica una «televisione che si occupi di politica senza che la politica si occupi di televisione», quando esprime il desiderio che «i finanziamenti pubblici vadano alla scuola pubblica», quando brandisce l'ironia sperando «che gli importatori di ananas non chiedano il diritto di replica», quando gioca con gli slogan sognando un'Italia dove non si dice «scendere in campo ma servire il Paese», quando dà il fiato alla trombe della protesta mettendo in pista il commissario Montalbano contro «i tagli allo spettacolo», lo show di Fazio esprime la sua cifra, la sua reale dimensione. Dietro l'arte, la letteratura, la musica, i guitti di vario titolo e gli scrittori engagè, c'è un programma politico che sostituisce quello dei partiti, un'offensiva politico-culturale che annienta ogni possibilità di replica perché il Totem-Saviano non si può criticare e se lo fai come minimo vieni accusato di concorso esterno con la camorra. I comunisti avevano la religione di Stato, i faziosi hanno quella del Giusto. Un breviario di frasi, sentenze e verità intoccabili e indiscutibili. La carrellata di personaggi di «Vieni via con me» è la sfilata della retorica pavloviana che ha riscritto la storia d'Italia a sua immagine e somiglianza. Non è una cronaca fedele della realtà, una ricostruzione che tende ad essere oggettiva, ma una narrazione allusiva, una proiezione di desideri, una simbologia che di fronte alle telecamere si trasforma in fiction e paradigma politico. È un copione che è costruito per non avere contraddittorio. La dimostrazione plastica l'abbiamo avuta quando sul palcoscenico è arrivato il ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Il suo intervento è apparso immediatamente un altro film, una sceneggiatura eccentrica rispetto a quella interpretata da Fazio, Saviano e compagni di ventura. Maroni elenca gli arresti, le leggi, i sequestri, i numeri. È emozionato. È un uomo di governo che si ritrova a dover spiegare che lui, il suo partito, un'intera classe dirigente, non sono collusi con la criminalità organizzata. Lo fa con dignità e semplicità, concedendosi solo il finale retorico della citazione di Gaetano Salvemini sul Meridione, il federalismo. Fine. Stretta di mano e via. Poi il programma torna a navigare nelle acque dei santini pronti per l'uso e il disuso, incollati sull'album di figurine di una famiglia che ripete sempre gli stessi errori e qualche volta li ha anche trasformati in orrori della nostra storia. E allora ecco comparire l'icona del povero Cucchi, il ragazzo morto in carcere. E l'Ivano Fossati che canta anch'egli se stesso ma almeno ha il pregio di essere un poeta vero. E Fazio che chiama, naturalmente, «un grande italiano», Renzo Piano, il quale è un geniale architetto, ma anche lui finisce nel giochino dei maestri a prescindere e ci dice che è contro il nucleare e fa un discorso sull'italianità che figurati se non lo condividiamo. Il sapere non è spiegato, ma piegato. Guardare «Vieni via con me» significa entrare in un plot narrativo a tema che non ammette scarti, sorprese e colpi di testa. Il programma è privo di ritmo - il che è davvero un paradosso per un puzzle di elenchi che nel ritmo trova la sua ragione - ma viene riscattato dall'elenco snocciolato da colui che è apparso come il vero genio della serata, Corrado Guzzanti. Ci ha fatto ridere. Almeno era satira, graffiante, cattiva, roboante, e non pretendeva di essere una cosa diversa da quella che è stata. Quando ha detto «Fini era fascista, poi postfascista e ora con il futurismo è tornato prefascista» ci ha deliziato. Il resto è un pallosissimo manifesto zdanovista, al confronto il Porta a Porta di Bruno Vespa è un thriller mozzafiato. Il baraccone messo in piedi da Fazio e Saviano ha successo. La scorsa settimana erano nove milioni incollati al video e non dubito del bagno di folla perpetuo. Non mi stupisce. La noia elevata a programma politico si basa su un meccanismo di autoidentificazione che mette in campo certezze. Niente dubbi, siamo l'Italia migliore, diversa, progredita, che ascolta musica, legge libri, va a teatro, fa i week-end giusti, ha le massime indiscutibili che servono per fare salotto, mangia con le posate, conosce i vini, cita i giornali stranieri, ha la terrazza ma non la esibisce e le tartine, signora mia, le tartine sono macrobiotiche. La puntata scorre via come l'acqua, il giorno dopo se ne parla in ufficio, al bar, di fronte al poveraccio che vota centrodestra, si finisce per darsi di gomito e compatirlo perché è un lobotomizzato che raggiunge il suo apice culturale guardando il Milan su Sky. Poi, improvvisamente, la televisione si spegne, è domenica, gli italiani si levano dal letto, vanno a messa, entrano nel seggio, votano. E qualcuno perde le elezioni.  

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