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Antiberlusconismo a mano armata

Maurizio Belpietro, direttore di Libero

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Milano. Piazza Oberdan. Ore 10 del mattino. Maurizio Belpietro e il sottoscritto seduti al tavolo del solito bar per il solito caffè della mattina e il solito punto nave, poco prima della riunione di redazione a Libero. Quante volte ci siamo detti: «È un clima impossibile. Non riusciamo più a sostenere le posizioni liberali in pubblico senza essere attaccati sul piano personale, bollati come servi e esposti al primo pazzo che passa e magari ha la pistola in tasca». Ecco, quel momento tanto temuto è arrivato. Mi stupisce che sia giunto solo ora, in ritardo rispetto ai nostri ragionamenti solitari, condivisi con pochi colleghi, tutti i giorni e nel silenzio più totale dei «giornaloni» troppo impegnati a raccontare uno scenario del Paese pieno di buchi, strappi, prediche inutili e occasioni mancate. Per tutti. Ricordo come fosse oggi un idrofobo Dario Franceschini apostrofare Belpietro in diretta tv come un giornalista non degno di esprimere una sua legittima opinione perché «dipendente di Berlusconi». Ricordo come fosse oggi lo sdegno di tutti in redazione e la sensazione netta di essere di fronte a un muro di gomma, una barriera che non accoglieva alcuna ragione, alcun pensiero al di fuori di quello a una dimensione proposto, espanso, irradiato da un sistema a tenuta stagna. Ed ora eccoci qui a commentare la cronaca di una brutta nottata che non è finita in tragedia solo per un caso del destino. Se l'Italia non prende coscienza di quel che sta accadendo molto presto ci ritroveremo a fare il necrologio di qualcuno di noi. E non ci sarà alcuna scusa, nessun «io l'avevo detto» che tenga di fronte al sangue e alla morte. Se un figuro qualsiasi arriva alla soglia della tua porta con una pistola in mano solo perché hai la colpa di sostenere idee diverse da quelle che si vorrebbero giuste, non discutibili, imperative, allora significa che questo Paese non ha capito niente del suo recente passato, significa che è malato. Se il segretario della Cisl Raffaele Bonanni viene bersagliato a colpi di lacrimogeno da una ragazzina che non paga pegno e finisce quasi per essere giustificata, se sei il Presidente del Senato e vai a parlare a un congresso di partito e finisci per beccare fischi e minacce, se sei un giornalista liberale e non puoi neanche andare al ristorante in santa pace con tua moglie, allora bisogna interrogarsi sullo stato di salute della Nazione e chiedersi seriamente dove andremo a finire di questo passo. Non è vero che siamo di fronte all'azione di cani sciolti, pazzi isolati con la pistola in mano. No, cari amici e nemici, non è questo il quadro veritiero dell'Italia. C'è gente che si augura la morte di Belpietro e di tutti quelli che la pensano diversamente, c'è gente che mette online pagine virtuali che sostengono l'eliminazione fisica dell'avversario, c'è gente che fa manifestazioni di piazza inneggiando alla rivoluzione, alla presa del Palazzo, possibilmente con la sofferenza dell'avversario e qualche forca in bella evidenza. Posso già scrivere la sceneggiatura di questo film: sdegno, allarme, notizia in prima pagina per 48 ore, poi seguirà il silenzio di sempre, tornerà il conformismo giustificativo e assolutivo di ogni azione contro chi in fondo vuole solo esser libero di esprimere le proprie idee. Questa tragedia viene da lontano, ma possiamo anche limitare la nostra analisi temporale, non andare poi così indietro e far partire le lancette della nostra storia dal 1994, anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi. Allora un Paese confuso e nel pieno di una finta rivoluzione giudiziaria scelse di affidare le sue sorti a un tycoon venuto da Arcore. Il copione con il finale già scritto della sinistra vincente grazie alla mano giudiziaria va a carte quarantotto. Da quel momento è scoppiato un cortocircuito che nessuno è ancora riuscito a riparare, quello tra politica e giustizia. Tutto nasce da qui. Il Paese s'è diviso tra berlusconiani e antiberlusconiani, copia dei guelfi e ghibellini, degli oriazi e curiazi, dei capitalisti e marxisti di un tempo lontanissimo che continua a deviare le coscienze. In nome dell'antiberlusconismo cieco e sordo, si sono consumate trame vergognose per la dignità di un Paese.   Gli intellettuali si sono fatti strumento di una lotta politica velenosa e bugiarda, i magistrati hanno issato la bandiera della Nuova Resistenza, gli storici indossato la divisa dei Gendarmi della Memoria raccontata mirabilmente in un libro di Giampaolo Pansa. Con lui, maestro di vita e giornalismo, negli ultimi anni mi sono ritrovato tante volte a commentare con un senso di infinita tristezza e rabbia il tema dell'odio, dell'instabilità, della minaccia costante contro chi non accetta un ordine precostituito, a senso unico, un'interpretazione ideologica fuori dalla Storia della nostra Storia. Ed ora eccoci qui, poveri illusi, a ragionare ancora su questa situazione assurda, sperando in una evoluzione e non in una ineluttabile rivoluzione e dissoluzione. La verità è che non ne usciremo neppure stavolta senza aver celebrato qualche funerale, pianto lacrime di coccodrillo e preso atto del nostro micidiale scontro di inciviltà. Non c'è bisogno di sfogliare le pagine degli Anni di Piombo per capire cosa sta succedendo. È tutto di fronte ai nostri occhi. Stiamo vivendo Giorni di Piombo, quelli dell'antiberlusconismo a mano armata.

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