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Le lacrime d'addio del capitano

Fabio Cannavaro

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Ha pianto, Fabio Cannavaro da Napoli, quasi trentasette primavere alle spalle e 136 partite con la maglia della Nazionale. Ha pianto proprio dopo la centotrentaseiesima, quella che ricorderà come l'ultima, la più brutta. O che magari cercherà di dimenticare nei prossimi due anni di esilio dorato a Dubai, quando i petroldollari saluteranno il suo addio al calcio vero. Ha pianto come dovrebbe sempre fare un capitano. Lontano dai riflettori, chiuso nello spogliatoio, mentre solo pochi minuti prima impassibile cercava di rincuorare l'inconsolabile Quagliarella e mandava a quel paese uno slovacco che gli chiedeva di scambiare la maglia. «Non mi vergogno ad ammetterlo, ho pinato», ha detto ieri, nella conferenza stampa del giorno dopo, «dopo 14 anni di momenti straordinari mi ha fatto male uscire così, ultimo e con soli due punti». Quattro anni fa era un eroe. In pochi mesi aveva vinto uno scudetto con la Juventus (sarebbe stato assegnato all'Inter qualche settimana dopo), un Mondiale insperato con la Nazionale e il Pallone d'oro come miglior calciatore d'Europa. La sua foto mentre sollevava la Coppa del Mondo è diventata immediatamente un'icona, simbolo di una generazione di fenomeni arrivata alla piena maturità e pronta a prendersi il palcoscenico. I Totti, i Del Piero, i Pirlo, i Buffon e i Gattuso. Adesso la sua immagine dovrà sopportare l'onta di un fallimento epocale, e se di simbolo si può parlare la sua faccia amareggiata eppure ferma, dignitosa, rappresenta un calcio italiano nel tunnel. «L'avevo detto anche l'anno scorso dopo la Confederation - ha ribadito - non vedo grossi fuoriclasse in giro. Abbiamo tanti buoni giocatori, ma nessuno di prima fascia». È vero, era stato uno dei primi ad accorgersene. Fin da quando, due anni fa, aveva spiegato di non vedere suoi possibili eredi nell'immediato futuro. «Nelle scuole calcio non insegnano più la marcatura a uomo, si prova solo la zona, per questo i ragazzi non sanno più difendere». E l'Italia senza difesa, lo si è visto in Sudafrica, non è più l'Italia. Ma non è solo il calcio giocato quello che è marcito nella penisola. È soprattutto quello che sta intorno. «Dobbiamo cambiare tutto: gli stadi, la cultura, il modo in cui la gente va a vedere la partita, gli investimenti sugli impianti. Ci sono stati due momenti, da questo punto di vista, che quest'anno mi hanno fatto male: quando a Catania me ne hanno dette di tutti i colori e quando a Torino contro il Parma hanno dovuto sospendere la partita per il lancio di petardi». Dalle stelle alle stalle. Un cambiamento doloroso per Cannavaro. Che però non abbassa lo sguardo, perché a questa altalena è stato abituato in tutta la carriera. Dall'esordio a Napoli fino alla disfatta sudafricana ha vissuto di tutto. La gloria con la Nazionale, la Juventus, il Real Madrid. E le amarezze, con i sospetti di doping per quel video che lo ritraeva con una flebo infilata nel braccio quando era un giocatore del Parma, prima di una finale di Coppa Uefa. Per Calciopoli, che ha sporcato di sospetti tutte le vittorie in maglia bianconera. Per il gran rifiuto di un uomo, Aurelio De Laurentiis, che quando Fabio espresse il desiderio di chiudere la sua carriera al Napoli rispose duro: «No, è troppo vecchio». Le contraddizioni, l'eterna oscillazione tra gli alti e bassi, sono stati sempre una caratteristica di Fabio Cannavaro. Un po' come della sua città, quella Partenope eternamente in bilico tra rilancio e autolesionismo. Le contraddizioni, il capitano azzurro, se l'è portate anche in entrambi in Mondiali. Quattro anni fa era perfetto, statuario in campo. Controverso fuori, per la difesa a spada tratta di Luciano Moggi in pieno tormentone Calciopoli. Stavolta è accaduto il contrario: perfetto fuori, con l'idea di devolvere gli eventuali premi per rispondere alle provocazioni di Calderoli, assai meno in campo, superato persino dai lenti dopolavoristi neozelandesi. Fabio Cannavaro sognava un addio diverso, ma i sogni restano quasi sempre nel cassetto. Resterà una maglia azzurra «che è diventata più pesante grazie alla stelletta che abbiamo aggiunto noi quattro anni fa», ma resterà anche un calcio italiano che «se non si dà una mossa ci metterà altri 26 anni a vincere un Mondiale». Sarebbero 24, ma si sa che l'emozione gioca brutti scherzi. Lui fa i bagagli e se ne va. E molto probabilmente ci mancherà, perché porta in sé tutte le caratteristiche di un popolo. La guasconeria, la furbizia, ma soprattutto il talento. E, usando un parallelo maligno con la politica, anche l'incapacità di lasciare la poltrona nonostante l'incalzare dell'età. Con la differenza che i numeri, nel calcio, sono ineludibili. E su loro si basano i processi. Cannavaro ci ha messo ancora la faccia e per questo merita rispetto.  

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