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Caro direttore, le decisioni del Governo sulla finanza comunale di Roma meritano una vera e franca discussione pubblica, e non l'ennesima sterile contrapposizione politica con relativo scaricabarile delle responsabilità.

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Intre tempi: la storia, due anni fa, oggi. La storia. Lo stock del debito del Comune di Roma è inferiore, per abitante, a quello di Milano, di Torino, e di altre città d'Italia. Le sue radici affondano in vicende trentennali. Soprattutto nella (pessima) abitudine di ripianare con mutui i deficit del trasporto pubblico. Solo a partire dal 2002 quella situazione è stata risanata, dall'allora amministrazione Veltroni. La Regione Lazio, ancora oggi, riconosce un contributo per i servizi minimi del trasporto inferiore di un terzo al confronto di quello assegnato dalla Lombardia a Milano, e ciò grava sui conti del Comune per circa 200 milioni. E proprio la Regione Lazio, a partire dal 2006, ha smesso di versare quella somma. Fra il 2002 e il 2008 il debito del Comune è aumentato molto meno che nei due precedenti decenni: l'incremento è stato di due miliardi durante gli anni '80 e di tre miliardi durante gli anni '90, poi solo di 800 milioni, interamente destinati a investimenti, e soprattutto all'apertura dei cantieri delle metropolitane. Per far fronte a questi impegni furono aperte linee di credito, in funzione dei fabbisogni effettivi che sarebbero sorti nel corso del periodo di cantiere (dal 2007 al 2013). Nell'ultimo DPF della Giunta Veltroni tutte queste problematiche erano scritte in modo trasparente, e discusse con tutte le forze sociali e imprenditoriali. Due anni fa. La nuova Giunta insediatasi dopo le elezioni di aprile 2008, di fronte a queste difficoltà - che non nascondemmo, né tanto meno oggi disconoscerei - scelse la strada del piano di rientro. Fu una scelta, non un obbligo. Milano e Torino continuano ad autogestire il loro debito, pur relativamente più alto di quello di Roma, e non hanno chiesto allo Stato un contributo per abbatterlo. Le conseguenze di quella scelta sono state due: primo, una corsa a farsi riconoscere ulteriori impegni a valere sul passato e una debole resistenza a tali richieste, tanto avrebbe pagato lo Stato Pantalone; secondo, una frattura amministrativa a cavallo della fatidica data del 28 aprile 2008 e il mancato pagamento di tanti fornitori i cui impegni risalivano al passato. Il primo dei due fattori è il «lievito» della massa debitoria riconosciuta nell'estate del 2008; il secondo è il «lievito» di oggi. L'operazione però non si è conclusa: i famosi 500 milioni promessi dal Governo non sono mai arrivati nella forma necessaria, e cioè permanente. Oggi. La soluzione che arriva oggi ha una sua logica: lo Stato concorre al ripiano, ma chiede all'amministrazione di fare la sua parte con risorse proprie e con obiettivi da raggiungere e da monitorare in modo condiviso. A me sembra inevitabile che la strategia scelta dal Comune due anni fa finisse così. Ma ci sono altri segnali negativi, che derivano dalla superficialità con cui l'attuale amministrazione ha curato il lato «entrate» del bilancio. Mi chiedo se il Sindaco e la sua maggioranza avranno il coraggio di chiedere sacrifici ai ceti più abbienti della città oppure ai proprietari di aree fabbricabili. E mi chiedo se il Campidoglio saprà riprendere la strada della concertazione e della trasparenza. Mi sembra arrivato il momento, per il Sindaco di Roma, di assumere in pieno le sue responsabilità di governo, mettendo in campo una strategia credibile, non di mera sopravvivenza ma di sviluppo della città. Marco Causi Deputato del Pd ed ex assessore al Bilancio di Roma

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