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La politica è sangue e merda: non chiede santificazioni

La tomba di Bettino Craxi

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Craxi, che è e resta una delle figure principali della storia politica italiana del Novecento, ha scontato in vita il destino atroce della demonizzazione, dell'orco tangentaro sulle cui spalle fu comodo scaricare il peso della corruzione della vita pubblica italiana, e oggi sconta, in relazione ai dieci anni della sua scomparsa, il singolare destino di una nuova polarizzazione tra chi assolutamente assolve e chi assolutamente condanna. Se i primi esagerano, a volte, i secondi sono ancora fuori dalla storia. Il paradosso paraculo che chi osserva con un pizzico di disincanto lo scannatoio mediatico di queste ultime settimane si trova di fronte è il seguente: molti di coloro che hanno combattuto Craxi in vita, e lo hanno frettolosamente accantonato nella polvere tunisina, fanno retromarce altrettanto superficiali come le antemarce di quindici anni fa, qualche vecchio sodale scappato alla mala parata timidamente si riaffaccia coi suoi distinguo, e mentre la vecchia guardia socialista, quella leonina, vive la sua stagione del riscatto, la solita industria del veleno professa l'anticraxismo come forma storicamente corretta di antiberlusconismo, parla delle condanne di ieri per scongiurare qualsiasi riabilitazione del presente. Il craxismo è molte cose, è soprattutto una lucida strategia di autonomizzazione del Psi dal duopolio democristiano-comunista che si spartiva la rappresentazione della società italiana, è l'intuizione delle giuste coordinate di modernizzazione prima della società poi della politica italiane, è pure il manifesto di un decennio, gli anni Ottanta, che non a caso resta il periodo più inviso ai nostalgici della militarizzazione ideologica degli anni di piombo o della sobrietà repressiva dell'Italia pre-sessantottina. Lasciando per un attimo fuori gioco l'analisi politica, l'esaltazione della Grande riforma o l'esecrazione per l'ingigantimento del debito pubblico, e chiamando in causa la storia sociale e del costume, non v'è dubbio che il craxismo, metaforizzato nella «Milano da bere», incarna lo spirito dell'unico decennio in cui l'ottimismo, a volte giustamente a volte incautamente, s'era impadronito del discorso pubblico, la società dei consumi disegnava il profilo di un'Italia più dinamica, e un certo senso dell'orgoglio nazionale si riaffacciava – tra la vittoria mondiale e Sigonella – anche tra la meno patriottica delle classi politiche europee. Di questi mutamenti profondi non solo Craxi ma la sua classe dirigente s'accorse, e cerco di interpretarli con alterne fortune. Chi è figlio degli anni Ottanta queste cose le ricorda, ricorda la «Milano da bere» lo «spirito milanese» fatto faro di un'Italia più dinamica, ma ricorda anche la Milano delle tangenti e l'incapacità di quella stessa classe dirigente di arrestare alcune dinamiche degenerative del sistema dei partiti che avrebbero inghiottito speranze, visioni, prospettive. Craxi è il protagonista assoluto di questo chiaroscuro, di una mobilitazione positiva di energie e aspettative che non ha mantenuto le promesse, ma anche il capro espiatorio ingiustamente caricato di responsabilità che in buona parte non gli appartengono. Così, se una «via Craxi» a Milano equivale a rappezzare il tessuto della storia di una città, una «via Craxi» a Roma. Chi tirò le monetine a Craxi al Raphael sbagliò sicuramente, chi le tira ancora oggi sulla sua memoria ha la memoria dimezzata, ma chi propone idealmente di coniare nuove monete con l'effigie craxiana per esorcizzare quelle del passato sarebbe forse scansato dallo stesso Craxi che, da socialista e italiano, sapeva che la politica è sangue e merda, e non chiede mai santificazioni.

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