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All'addio di Caradonna si vede poca An

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Qualchemese fa Giulio Caradonna li aveva definiti «i migliori della loro generazione». Ieri Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri - unici big da piazza Montecitorio - hanno ricambiato arrivando puntuali al suo funerale. Che non è stato, come c'era da aspettarsi, un funerale qualsiasi. A cominciare dalla bara ricoperta con la bandiera della Repubblica sociale, per finire al saluto romano più volte ripetuto, passando per lunghi, lunghissimi applausi quello di ieri pomeriggio è stato anzitutto il funerale di un camerata. Probabilmente la cerimonia che si aspettava, col discorso appassionato di Domenico Gramazio, con Ciarrapico (il Ciarra è ormai l'ultimo vero fascista esplicito), con Teodoro Buontempo, con i militanti degli anni Settanta, con qualche fotografo, anche. Niente folle oceaniche, nella piccola chiesa di San Giuseppe in via Nomentana, poiché Giulio Caradonna non era certo di quelli che piacevano a tutti: ruvido, dissacrante, sarcastico, per quelli che oggi occupano il Parlamento non si è mai sperticato in lodi, anzi. Fini? «Non mi convince». Storace? «Bravo ragazzo, ma con quel partitino non si va da nessuna parte». Alemanno? «Grande coraggio fisico, poca intelligenza politica» e poi uno spiraglio: «Vedremo cosa farà come sindaco di Roma». Filoatlantico, filoisraeliano (andò a Gerusalemme a rendere omaggio al muro del pianto una trentina d'anni prima di Gianfranco Fini), il ricordo di Alemanno con la kefiah in testa non l'ha digerito fino al giorno in cui si è convinto che, finalmente redento, alla guida della Capitale poteva far bene. Otto legislature, dodici processi e sette condanne, Giulio Caradonna era decisamente - decisamente - un attivista: resta memorabile la foto di lui che fa il saluto romano mentre la camionetta della polizia lo porta via, resta memorabile il coro «Se non ci conoscete, pregate la Madonna, noi siam gli arditi di Giulio Caradonna». Ma resta memorabile anzitutto la carica sessantottina alla facoltà di Lettere per separare il mostro informe nato dall'unione dei militanti di destra con i «rossi». «Arrivai quando i nostri erano già fuggiti a Giurispudenza», disse poi, ma non ha mai negato di aver diretto le operazioni con la sua inseparabile stampella a fare da bacchetta. Del resto, come ha candidamente ammesso, l'unico suo rimpianto è quello di «non aver menato abbastanza ai comunisti». Per «sputtanarli», però, fece di tutto, perfino tentare di buttare l'ambasciatore cinese in mutande nella fontana della Minerva. Non manca nulla nel suo curriculum di politico-militante, nemmeno l'iscrizione alla P2 e un film («Vogliamo i colonnelli») ispirato alla sua vita rocambolesca. Non tutto, comunque, gli piaceva della destra di allora: certi riti pagani con sacrifici di galli - fatti avvenuti in una federazione di Pisa - proprio non poteva ammetterli, tanto da chiedersi se quel gallo toscano di tre mesi «offerto a non so chi cavolo», venisse in fine mangiato. L'idea in sé lo sconvolse poiché se c'era qualcosa in grado di sconvolgere Caradonna era la mancanza di concretezza, le parole inutili, le perdite di tempo. Il suo funerale, quindi, breve e con i pochi amici di sempre, non lo avrà certo deluso.

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