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La br suicida voleva collaborare

Diana Blefari

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  La compagna Maria si è uccisa. Ha annodato le lenzuola e si è impiccata nella cella che occupava al piano terra della sezione «cellulare» di Rebibbia femminile. Diana Blefari Melazzi, organica delle nuove Brigate Rosse, 40 anni, condannata all'ergastolo per l'omicdio del giuslavorista Marco Biagi ha voluto mettere fine alla sua vita. Da tempo non era sottoposta al 41 bis, il carcere duro previsto per i brigatisti irriducibili. Era arrivata a Rebibbia da poco. La sua pena la stava scontando nel carcere fiorentino di Sollicciano dove era sottoposta a cure sanitarie viste le sue precarie condizioni psicologiche. Nel mese di aprile, dopo l'aggressione a un agente della Penitenziaria, il gup del tribunale di Roma, Pierfrancesco De Angelis, aveva disposto una perizia psichiatrica per verificare la capacità di stare in giudizio e quella di intendere e di volere di Diana Blefari Melazzi. I difensori della brigatista gli avvocati Caterina Calia e Valerio Spigarelli, avevano chiesto la consulenza affidata al professor Antonio Pizzardi, sostenendo che Blefari non fosse in grado di presenziare al processo. Il 27 ottobre scorso, quando la Cassazione confermò la condanna all'ergastolo per lei, senza successo, l'avvocato Spigarelli cercò di contestare la legittimità della perizia medica eseguita nell'appello bis sostenendo che era di parte in quanto affidata ad un consulente del pm che si era già occupato del caso.   E ieri davanti Rebibbia l'avvocato Valerio Spigarelli si è detto: «profondamente scosso e non solo professionalmente, scosso umanamente come di rado mi è capitato». «Non voglio fare dichiarazioni ad effetto - ha detto il legale della brigatista suicida - chi mi conosce sa che non amo fare dichiarazioni e men che meno in queste circostanze. La storia giudiziaria di Diana Blefari Melazzi la conoscete tutti: in più occasioni abbiamo presentato istanze chiedendo la sua incapacità di stare in giudizio. E sapete tutti questa vicenda come è andata a finire». La tragedia si è consumata intorno alle 22. Un tonfo sordo e l'agente della polizia penitenziaria in servizio presso la sezione «cellulare» è corsa verso la cella, vicino al corpo di guardia, occupata dalla brigatista. La cinquantenne agente penitenziaria proprio sabato sera era tornata in servizio a Rebibbia femminile, dopo essere stata distaccata per un periodo a L'Aquila per stare accanto ai familiari colpiti dal terremoto.   La poliziotta ha cercato di rianimarla poi ha chiamato i soccorsi ma non c'era più nulla da fare. «A Rebibbia ci sono 330 detenute, di cui 88 nel reparto dove era detenuta la Blefari - spiega Leo beneduci dell'sindacato Ossap - Le agenti dovrebbero essere 164 ma sono 110. E questo perchè il Dap continua a distaccare personale femminile per impiegarlo in servizi amministrativi». Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha avviato un'inchiesta amministrativa, sottolineando che Blefari era «in una situazione carceraria compatibile con le sue condizioni psicofisiche». Anche il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Franco Ionta, che si è recato a Rebibbia, ha detto che la «sistemazione» della terrorista «era corretta». La compagna Maria era un irriducibile, cresciuta nell'Area antagonista, addetta alla logistica della colonna brigatista. Fu lei a occuparsi del trasferimento dell'archivio e delle armi dal covo di via Maia nello scantinato di via Montecuccoli. «Fosse stato per me, Biagi l'avrei torturato prima di giustiziarlo», scriveva in un bigliettino inviato all'altro brigatista Mezzasalma durante un'udienza del processo per l'omicidio del giuslavorista. E propio in quell'occasione Diana Blefari fu sopposta a un «processo interno» da parte dell'organizzazioen che riteneva la sua linea difensiva un sosrta di «dissociazione». Lettere scambiate con Nadia Desdemona Lioce, il capo delle nuove Bierre, fanno emergere stati d'animo conflittuali sulle sua scelta rivoluzionaria. «Sono da anni e ancora oggi una militante rivoluzionaria associata all'Organizzazione che si è guadagnata un ergastolo non certo per soddisfare propri bisogni individuali ma per dare un contributo rivoluzionario partecipando all'azione Biagi», scriveva nel 2005 Diana Blefari Melazzi al «commissario del popolo» Lioce. Un percorso che avrebbe condotto la compagna Maria verso una forte crisi depressiva, più volte ricoverata all'ospedale psichiatrico di Montelupo fiorentino, e poi verso la scelta, evidentemente molto sofferta di collaborare con lo Stato. A supporto di questa ipotesi il fatto che il 23 ottobre doveva essere di nuovo trasferita a Firenze e invece è stata trattenuta a Rebibbia dove proprio sabato aveva incontrato alcuni investigatori. Diana Blefari Melazzi aveva fatto capire agli investigatori di essere disposta ad essere sentita su Massimo Papini, romano di 34 anni, attrezzista al cinema, arrestato qualche settimana fa a Castellabate alla Digos di Roma e Bologna con l'accusa di partecipazione alla banda armata Brigate Rosse per il Partito Comunista Combattente. Papini sarebbe stato sentimentalmente legato alla Blefari Melazzi. La brigatista, arrestata dopo la scoperta del covo deposito di via Montecuccoli a Roma, avrebbe dovuto essere interrogata in questi giorni ma la condanna definitiva all'ergastolo firmata il 27 ottobre dalla Cassazione per il delitto Biagi aveva determinato uno slittamento dell'atto istruttorio. Alla Blefari Melazzi gli investigatori avrebbero chiesto informazioni circa una serie di contatti con Papini attraverso l'uso di schede telefoniche prepagate. Ma Diana Blefari poteva rivelare dove fossero le armi usate dai brigatiosti per alcuni omicidi che ancora non sono state trovate.

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