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Le famiglie dei soldati uccisi a Kabul

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Lodicono, fuori alla basilica di San Paolo, le signore accorse per l'ultimo saluto ai sei parà italiani; lo urlano, all'interno della chiesa, i volti delle madri dei giovani uccisi, giovedì scorso, in un violentissimo attentato a Kabul. Sono grida silenziose, che accompagnano un dolore muto e composto. Decoroso e rassegnato. Sono volti che, per tutta la cerimonia, si stringono alle foto dei figli e accolgono quasi con indifferenza i saluti che i rappresentanti delle istituzioni, uno ad uno, hanno riservato loro per testimoniare il proprio cordoglio. Madri e non solo. Padri, mogli o fidanzate, fratelli, sorelle e figli. Sono i primi a fare ingresso nella basilica, verso le dieci, quando la camera ardente del Celio, dove domenica erano state trasferite le bare di Antonio Fortunato, Matteo Mureddu, Gian Domenico Pistonami, Massimiliano Randino, Davide Ricchiuto e Roberto Valente, non ha ancora chiuso, per via della massiccia affluenza di persone. In quella quiete tragica e irreale, religiosa e laica assieme, c'è chi ha bisogno di uscire per prendere aria o chi guarda avanti a sé, incredula, scuotendo lentamente e ripetutamente la testa. C'è chi cerca di trattenere le lacrime per consolare sua moglie, anche se tra quei sei feretri c'è suo figlio, come il padre di Davide Ricchiuto o di Matteo Mureddu, o chi resta a mani giunte, quasi inchiodate, per tutta la cerimonia, quasi per aggrapparsi a qualcosa. Ci sono dita allacciate fra di loro. C'è soprattutto tanta dignità. E compostezza. Anche quando un uomo, sui sessant'anni, irrompe sull'altare e grida, a più riprese, «Pace subito». L'immagine dell'ultimo saluto ai sei militari della Folgore non sarà, però, solo quello di una mamma, di una moglie o di fidanzata, schermata da occhiali da sole neri per nascondere lo strazio, ma sarà quella di un bambino che, a dispetto del cerimoniale, ha lasciato per qualche secondo il suo posto per salutare suo padre, il tenente Antonio Fortunato. Martin ha sette anni, polo celeste, jeans e scarpe da ginnastica, e sa cosa significa quel saluto. Lo dimostrano le sue lacrime mentre accarezza la foto del papà e la corsa verso la mamma, in cerca di conforto. Nelle file più addietro, c'è invece una bimba che gioca e fa i capricci. Come ieri il piccolo Simone Valente non sa che sta assistendo ad una tragedia. All'interno e all'esterno della basilica, però, c'è anche un'altra famiglia, quella in divisa. Quella che grida, "Folgore, Folgore, Folgore", per siglare il solenne rituale di saluto e che ha portato le sei bare, riuscendo a stento a trattenere le emozioni. È una famiglia composta anche dai soldati di altri gruppi e di altre Armi, o da ex parà che sono arrivati alla cerimonia indossando il mitico basco amaranto su abiti civili. Ci sono, infine, i reduci dell'attacco, alcuni lievemente feriti, altri visibilmente scossi, venuti solo per salutare i compagni scomparsi, e un padre, quello di Gian Domenico Pistonami, che indossa la giacca militare del figlio, come a ribadire quell'appartenenza. «Ragazzi, speriamo sia l'ultimo», dice un militare, al termine delle esequie, mentre centinaia di persone defluiscono, lente, dal chiostro della basilica di San Paolo. Un augurio che si perde tra la folla, tra tricolori ammainati e le scie bianco, rosso e verdi che si disperdono nel cielo di Roma.

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