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Un motore liquefatto in mezzo alla strada, polvere e nafta, brandelli di carne, urla che coprono i gemiti

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Epoi le foglie degli alberi carbonizzati a stendere il primo velo «naturale» sull'atrocità. A cercare di coprire con la dignità la bieca violenza. Ma la natura è lontana dalla logica di una guerra senza regole. E, beffarde nella denominazione, due «linci» assistono senza più muoversi al massacro. Strage senza testimoni perché non servono versioni per ricostruire la follia che ha spazzato dalla vita sei coraggiosi italiani con un'idea fissa: la pace. Fatta di giustizia, anche di prove di forza, ma da affrontare nel segno del confronto, dell'aiuto leale. Guardandosi negli occhi. Invece quelle dodici pupille della Folgore hanno avuto solo un ultimo bagliore che ha illuminato la loro estrema speranza di vittoria. Adesso, a più di cinquemila chilometri di distanza dall'eccidio, c'è solo la notizia che nessuno vorrebbe ricevere. «E voi qui che ci fate?», ha chiesto la madre di Roberto Valente, vedendo i militari alla sua porta. Quella donna, a 77 anni, non attendeva nessuna visita, ma la telefonata del figlio partito l'altroieri da Napoli per rientrare a Kabul, dopo 15 giorni di licenza trascorsi a casa. Valente aveva 37 anni, il più «anziano» del gruppo di eroi. Era in Afghanistan dal 22 maggio scorso e aveva diverse missione all'estero alle spalle: ora, dopo undici anni, sognava di tornare per sempre a Napoli, vicino alla moglie Stefania Giannattasio e al figlio Simone, di appena due anni. Così da Napoli a Oristano, da Potenza a Lecce, da Orvieto a Salerno è un lutto che attraversa mezza Italia quello dei sei soldati uccisi, giovani o poco più. A partire dai 26 anni di Matteo Mureddu, di Solarussa, un piccolo paese in provincia di Oristano. Figlio di un allevatore di pecore, Augusto, e di una casalinga, Greca, ha un fratello di dieci anni più grande, Stefano, anch'egli militare, e una sorella Cinzia, che l'estate scorsa l'aveva reso zio. Il giovane avrebbe dovuto sposarsi lo scorso mese di giugno, come ha rivelato l'ex parroco di Solarussa, don Franco Murru. «Con la fidanzata avevano deciso - ha spiegato - di sposarsi a giugno ma poi avevano rinviato per la decisione di partire per l'Afghanistan». Anche il caporalmaggiore Davide Ricchiuto aveva 26 anni. Risiedeva a Tiggiano, nel Salento, insieme alla famiglia ed era il secondo di tre figli: il fratello maggiore si chiama Ippazio, la sorella minore Anna Lucia. Il padre Angelo, che da giovane era emigrato in Svizzera, è rientrato da tempo nel paese d'origine con tutta la famiglia e attualmente lavora in una ditta di costruzioni. La madre è casalinga. Il giovane, che aveva la funzione di autista di mezzi militari, non era alla prima missione in Afghanistan. Appena possibile tornava sempre in paese a casa dei suoi. Il tenente Andrea Fortunato, 35 anni, che comandava la pattuglia, originario di Lagonegro (Potenza), in forza al 186° Reggimento, aveva vissuto diversi anni a Tramutola, sempre nel Potentino, dove risiedono tuttora i suoi genitori. Andrea Fortunato lascia la moglie Gianna, insegnante precaria con cui avrebbe festeggiato dieci anni di matrimonio il 16 dicembre prossimo. La coppia ha un figlio di sette anni. Del caporalmaggiore GianDomenico Pistonami parliamo in un servizio a parte su questa stessa pagina. Il caporalmaggiore scelto Massimiliano Randino, 32 anni, era appena tornato a Kabul dopo una licenza di una dozzina di giorni trascorsi in Italia. Nato a Pagani (Salerno) il 16 agosto 1977, dal 31 gennaio scorso effettivo al 183mo battaglione Nembo di Pistoia. Al momento dell'attentato era appena arrivato a Kabul. Randino, residente a Sesto Fiorentino (Firenze) lascia la moglie, sposata cinque anni fa.

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