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Anche Franceschini inciampa sul voto

Dario Franceschini

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{{IMG_SX}}Il primo fu Achille Occhetto. Anno di grazia 1994. La sua «gioiosa macchina da guerra» era appena stata sconfitta sul campo dalle truppe del Cavaliere di Arcore. E lui decise di lasciare la poltrona di segretario del Pds. Da allora sono passati 15 anni. Silvio Berlusconi è caduto e risorto, ma la sua leadership si è sempre confermata solida. Nel frattempo il centrosinistra ha bruciato candidati premier e segretari di partito con la rapidità con cui si fuma una sigaretta. E ora anche Dario Franceschini, l'ultimo arrivato, sembra destinato a fare le valigie. In fondo, si sa, la sua era un'impresa disperata. Ha ereditato un partito in caduta libera e con alle spalle due cocenti sconfitte elettorali in Abruzzo e Sardegna. L'aver evitato la catastrofe è comunque un merito. Certo, ha perso il 7% rispetto alle Politiche (gli stessi punti persi nel Lazio mentre a Roma ha fatto segnare un -2%), ma il Pdl non ha sfondato e questo basta, come raccontano i suoi, per rendere il segretario «abbastanza soddisfatto». Forse, però, non basterà. Da oggi si apre la stagione congressuale e difficilmente Dario riuscirà a confermarsi leader di un Pd che, sempre di più, sembra destinato a trasformarsi in un campo di battaglia per le varie correnti. Ma andiamo per ordine. Dopo Occhetto venne Romano Prodi. Il Professore di Scandiano è l'unico che non ha mai perso il confronto diretto con Berlusconi. Almeno formalmente. Vittoria nel 1996. Ma ottenendo meno voti dell'avversario. Quasi una sconfitta dieci anni dopo quando la spuntò solo sul filo di lana. In compenso, ad impallinarlo, ci hanno pensato i suoi. Il primo governo Prodi, infatti, cadde per un voto di fiducia. In senso lato e in senso letterale visto che, al momento dei conti, mancò esattamente un voto. Finì 313 no contro 312 sì e il Professore se ne andò in Europa. Al suo posto arrivò Massimo D'Alema. Ma senza passare dalle urne visto che, dopo la figuraccia rimediata dal predecessore, la vittoria di Berlusconi sembrava scontata. Anche il lìder Maximo, però, non ebbe vita facile. Arrivato a Palazzo Chigi il 21 ottobre 1998, entrò per la prima volta in crisi il 22 dicembre 1999. Un rimpasto e via fino 25 aprile 2000 quando presentò le sue dimissioni. In Aula spiegò che lo aveva fatto per un «atto di coerenza» e di «sensibilità politica» dopo la pesante sconfitta del centrosinistra alle elezioni amministrative. Mancavano appena 11 mesi alla fine naturale della legislatura e toccò a Giuliano Amato scongiurare il voto anticipato e trascinare una coalizione ormai a pezzi verso le elezioni del 2001. Il dottor Sottile sperava di essere il candidato premier, ma gli andò male. Così, dopo aver bruciato tre leader in cinque anni, Berlusconi fece fuori anche il quarto. In verità Francesco Rutelli non si comportò proprio male recuperando un gap impressionante e arrivando ad un milione di voti di distanza dal Cavaliere. Ma Berlusconi fece il pieno di deputati e il leader dell Margherita fu costretto ad alzare bandiera bianca. E si arriva al 2006. A corto di leader e di idee l'opposizione antiberlusconiana decide di puntare sull'usato sicuro. Romano Prodi ritorna da Bruxelles e si mette alla guida di un fronte che raccoglie da Clemente Mastella a Fausto Bertinotti. Tutti insieme appassionatamente. Quella del Professore dovrebbe essere una cavalcata trionfale verso la vittoria. Dopo 5 anni di governo il consenso di Berlusconi è al minimo storico. Il centrosinistra governa in gran parte degli enti locali. Alla fine, però, sono solo 24.000 i voti che separano il Cavaliere dai suoi vittoriosi avversari. Ci sono tutte le premesse per capire che anche questa esperienza, come quella del 1996, non durerà a lungo. E infatti agli inizi del 2008 la macchina si ferma. Prodi si ritira a vita privata e lascia il posto a Walter Veltroni invocato da mesi come l'unico in grado di guidare il Pd verso un glorioso avvenire. Il salvatore della Patria sogna il pareggio ma, alle politiche, va a sbattere contro il muro berlusconiano. È l'inizio di un lento stillicidio che lo porterà alle dimissioni dello scorso febbraio. Ed eccoci a Franceschini. Qualcuno dice che il risultato di queste europee, migliore delle aspettative, potrebbe servirgli da assicurazione per la vita. Il segretario ieri, a urne ancora aperte, ha convocato tutti i big del Pd alla Camera (lontano dai giornalisti) per evitare la solita carrellata di dichiarazioni improvvisate dopo il voto e fissare la strategia dei prossimi giorni. Franceschini ha chiesto di rimanere uniti fino ai ballottaggi delle amministrative. Poi, il 26 giugno, si riunirà la direzione del partito. E in quell'occasione qualcuno potrebbe pronunciare la fatidica frase: avanti il prossimo.

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