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Brunetta: "La busta paga sarà più pesante se si incentiva la produttività"

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Il dato dell'Ocse sui salari che mette l'Italia agli ultimi posti nella graduatoria dei paesi più industrializzati non è una novità. «È così da almeno 10 anni ed è legato al fatto che in questo Paese la produttività non è cresciuta abbastanza e il reddito prodotto è andato più a vantaggio dei profitti che dei salari» dice a Il Tempo, Renato Brunetta, Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione. Gli imprenditori secondo lei si sono tenuti la fetta più grossa della torta. Ha detto una cosa di sinistra? «No. Da economista. Per me non c'è nessun problema se i profitti crescono più dei salari. Quello che che è importante è che i guadagni delle imprese siano poi utilizzati per gli investimenti che creano occupazione e domanda. Molta di questa ricchezza si è invece trasformata in rendita finanziaria». Siamo tra i fanalini di coda nel peso della busta paga solo per questo? «È uno dei fattori. Molto dipende anche dal boom del lavoro atipico e flessibile che per definizione ha una minore remunerazione. Negli ultimi dieci anni gli occupati sono cresciuti di 2,5 milioni di unità. La produttività non è aumentata e la stessa ricchezza è stata divisa per un numero maggiore di persone. Dunque è un problema strutturale». Queste la cause ma qual è la ricetta per aumentare la produttività? «Pagare meglio chi lavora di più. E dunque incentivare il merito. È quello che sto cercando di fare nella pubblica amministrazione destinando il 50% delle risorse al 25% dei dipendenti meritevoli. Un meccanismo che ho inserito nella legge di riforma e che ha un alto livello di raffinatezza». Premi e incentivi. Può aiutare per questo il nuovo modello di contrattazione? «Assolutamente sì. È la contrattazione collettiva che blocca qualunque sistema per premiare il merito e la maggiore produttività. Il nuovo modello di relazioni industriali ha questo obiettivo». Basta questo per risalire la classifica dell'Ocse? «Sì. Sarebbero sufficienti anche solo cinque anni per scalare molte posizioni. Non c'è altra via anche perché con la moneta unica il gap che ci separa dagli altri paesi ci fa soffrire di più. Veniamo da 15 anni di dinamica salariale appiattita ed è il momento di puntare su nuove relazioni industriali per invertire la tendenza. In ogni caso almeno quest'anno i salari sono cresciuti».  È una battuta? «No. È dimostrabile che molti lavoratori hanno ottenuto una sorta di "dividendo della crisi" che ha reso più ricchi negli ultimi mesi 14 milioni di lavoratori e molti milioni di pensionati».  Come si spiega? «Parlo chiaramente di tutti quelli che hanno un posto di lavoro e che nel frattempo non lo hanno perso. Per questi i rinnovi contrattuali ottenuti negli ultimi mesi scontavano un'inflazione precedente alla crisi attorno al 3-4% e che invece è oggi tra l'1 e il 2%. Il saldo netto in busta paga è stato positivo con un potere d'acquisto in aumento. I soli a soffrire dunque sono non più di 500 mila persone in cassa integrazione con assegni ridotti e i disoccupati che però almeno finora sono rimasti in numero contenuto».  Gli italiani sono più ricchi ma non spendono. Perché? «L'aumentato potere d'acquisto si è trasformato in risparmio perché manca ancora la fiducia. Il governo sta lavorando per farla ritornare. Non a caso ha puntato sul Piano casa. La crisi negli Usa e nel mondo è partita dai mutui subprime dell'immobiliare. È da lì che si deve cominciare per far ripartire l'economia». La Confindustria parla di un'uscita dalla crisi lunga e dolorosa. Ma anche che il peggio è alle spalle. Un'apertura dagli industriali abbastanza critici nel passato per l'azione del governo «La Confindustria fa il suo mestiere. Ma il governo ha agito con freddezza. A luglio dello scorso anno ha messo in sicurezza i conti. A novembre ha messo al sicuro il risparmio con l'aiuto offerto alle banche. E a dicembre il lavoro con gli stanziamenti per gli ammortizzatori sociali». Nessuna sbavatura? «No. Anzi una sensazione positiva. La bella stagione, la mobilità e i flussi turistici, porteranno via come la pioggia manzoniana la peste della crisi».

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