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"L'Aquila 2", una scommessa

Terremoto in Abruzzo, foto aerea della Polizia

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Non basta un laghetto o un giardino per fare una città, dice Massimiliano Fuksas, l'architetto della «Nuvola» dell'Eur, per dire l'ultima, voluta da Veltroni quand'era sindaco. «Guai ai dormitori», avverte Paolo Portoghesi, l'autore della Moschea di Roma, sensibilità più vicina alle nostre radici umanistiche. Sembrano posizioni concordanti, inclini a bocciare l'idea di Berlusconi: l'Aquila è uno spettro, facciamo una nuova città. In realtà a Portoghesi la voglia di fare del Cavaliere non sembra tanto sbagliata. Ma con alcuni distinguo: «L'Aquila non può essere abbandonata, è una delle più belle città d'Italia. E poi i danni all'edilizia monumentale non sono poi così grandi», dice a Il Tempo. «Invece i sobborghi della città, fatiscenti, potrebbero essere ben sostituiti da un nuovo centro. E l'idea è ottima. Perché finora, in Italia, l'edilizia convenzionata ha creato mostri. Invece una new town, appunto una città con i suoi caratteri di aggregazione, è una soluzione più che percorribile». Rilancia Portoghesi: «La ricostruzione dell'Aquila sarà uno dei grandi problemi della cultura di questi anni, un cimento per il governo che sa governare. Se mi chiedete poi dove rifare il palazzo della Prefettura, rispondo: dov'era quello crollato. Si bandisce un concorso internazionale. Qualcuno proporrà di riprodurlo tale e quale, qualcun altro un edificio moderno. Ma il confronto sarà comunque fruttuoso». Fuksas invece non media, anche se questo comporta tempi lunghi, il contrario di quanto chiedono, sempre, i terremotati e di quello che promette il Premier. «Per l'Aquila ci vuole una soluzione definitiva, non deve diventare un nuovo Belice. Le news towns, da quelle operaie americane degli anni Trenta, all'ibrido città-campagna lanciato in Inghilterra, sono state un fallimento. Idem in Francia, negli anni '70. Io stesso ho lavorato alla ville nuovelle di Saint Quentin-en-Yvelines e non lo rifarei». Il punto sul quale sono tutti d'accordo è invece come costruire. «La legge del 2005 sui criteri di edificazione ha eliminato le storture delle norme del '70 e del '90 - ricorda Portoghesi - Il problema è che non viene applicata. L'ospedale dell'Aquila non era a norma, e così centinaia di edifici, anche pubblici». Fuksas punta il dito anche sugli «appalti al ribasso» che porta all'uso di materiali scadenti. «Bisogna vedere che cosa c'è dentro gli edifici, gli spessori, le posizioni». I geologi, per bocca del loro presidente, De Paola, chiedono attenzione alle caratteristiche del territorio: «Quello dell'Aquila può aver determinato l'amplificazione del sisma, servono indagini preventive». Entra nel dibattito anche la psicologa Vera Slepoj. «Per i giovani la new town potrebbe rappresentare un'opportunità, a patto che rispetti il territorio, perché l'individuo ha radici indissolubili con il luogo d'origine. Più ardua l'accettazione da parte degli anziani, che rischiano la perdita di identità». L'idea di Berlusconi non piace affatto al sociologo Diccio Scatolero. «Le città satellite sono sempre diventate città ghetto». Il rifiuto della città in vitro viene da chi ha vissuto sulla propria pelle analoghe tragedie. Don Pietro, parroco di Longarone, il paese travolto dalla diga del Vajont, ricorda: «Ci fu una sollevazione popolare all'idea di ricostruire in altro luogo». E l'architetto Degan Bianchet di Gemona, rasa al suolo dal terremoto del Friuli, avverte: «Le new town fanno la fine delle banlieues».

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