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Giornali, agenzie e partiti attesero fino a tarda sera il Villari dimissionario. Che però non apparve. Così il giorno dopo, venerdì, nel partito Democratico si moltiplicarono le autoritarie intimazioni a lasciare quel posto conquistato con procedura disdicevole. Ma l'unico effetto sortito fu quello di due telefonate del neopresidente a Renato Schifani e a Gianfranco Fini e l'annuncio di aver preso appuntamento con i due. Per oggi o domani. E le dimissioni? «Mi dimetterò solo quando ci sarà una soluzione condivisa», annunciò subdolo, mentre il Pd sfoggiava un'inaspettata dose di umorismo (involontario): «Non credo che il senatore Villari sia una quinta colonna — profetizzò Massimo D'Alema — Personalmente non ho dubbi sul fatto che si dimetterà». Il terzo giorno, sabato, non portò ripensamenti. E neppure dimissioni. E nel Pd iniziò ad affiorare qualche dubbio: «Lui dichiara fedeltà alle ragioni del Pd: ed io gli credo — disse Fabrizio Morri, senatore Pd — Ma forse si è detto: faccio ammuina per un po', poi lascio». Concetto che Riccardo Villari, in un'intervista, precisò meglio: «Probabilmente, l'altra sera, al cellulare ci siamo capiti male con Veltroni... Purtroppo a San Macuto c'era un tale trambusto che... Eppoi, abbia pazienza: le pare che al segretario del mio partito dico una cosa, e poi ne faccio un'altra?». Domenica, giorno quarto, dimissioni nessuna. Ieri, quinto giorno. Ancora «ammuina». E oggi? Si vedrà...

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