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Alemanno: «Ora porterò i ragazzi alle foibe»

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Gianni Alemanno

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Le cataste di scarpe messe in mostra nelle teche di vetro. I vestiti dei bimbi mandati a morire. E poi il confronto con i duecento studenti romani che gli chiedono anche del suo passato di militante missino. Lui raccomanda: «Ragazzi, nelle proteste non siate faziosi. Ho occupato anche io. Cercate sempre proteste costruttive». E i due ragazzi Rom che fanno parte della delegazione del Viaggio della Memoria che ogni anno è organizzato dal Comune. Si chiamano entrambi Carlos e gli hanno chiesto di incontrarlo. Anche questo è finito, sono le due di notte, il sindaco di Roma arriva nella hall del Novotel, albergo un po' squallido ma a buon mercato. C'è puzza di fumo, visto che qui ci si può accendere la sigaretta in un luogo chiuso. Tira su le maniche della camicia bianca a righe rosse, i jeans marroni, niente telefoni e telefonini. Che cosa le hanno detto, sindaco, i due ragazzi Rom? «La casa, vogliono una casa. Vogliono lasciare il campo. Bisogna aiutarli, bisogna dare loro la casa». A Reggio Calabria, il sindaco Peppe Scopelliti, suo successore alla guida del Fronte della Gioventù, ha fatto così: un tetto per ogni famiglia Rom, ma mai nello stesso quartiere, in modo da evitare una nuova ghettizzazione. «Vediamo, studiamo il caso di Reggio. Troveremo una soluzione. Ma la strada è quella. A Roma ci sono quindici campi che devono essere chiusi e dobbiamo porci il problema di integrare chi c'è dentro». Anche a Pisa e a Voghera si sono intrapresi percorsi simili. Tre sindaci, destra, sinistra e un leghista, stessa soluzione. «E infatti quella è la via. Dobbiamo studiare come, ma a Roma dobbiamo insistere su legalità e solidarietà. Ripeto, legalità e solidarietà», continua pacatamente e inesorabilmente Alemanno. Poi la sua voce si fa più dura: «A Roma bisogna fare le case. Ventimila alloggi. Nei prossimi due anni. Al massimo tre. Non ve ne rendete conto, ma questa è la vera emergenza sociale. Che sta per esplodere». Arriva Laura Marsilio, l'assessore alla Scuola, e gli fa: «Gianni, poi ti attaccano». Lui s'inalbera: «E io vado avanti lo stesso. Non m'importa. La sinistra è incredibile, s'attaca a tutto. C'è un'emergenza sociale, voglio risolverla e loro che fanno? Si mettono contro. Ma noi andiamo avanti, lavorando con l'Opera Nomadi e con la Caritas». Già, la Chiesa. Alemanno torna indietro con la memoria, ripercorre i flash della giornata. Auschwitz. Racconta di come sia rimasto colpito, oltre che dalle immagini più crude, anche da un padiglione meno noto. «È quello di monsignor Kolbe (morì nel campo di concentramento nel '41 perché chiese di sostituire un padre condannato a morte; fu santificato ndr). È stato sistemato come ultimo edificio, difficile arrivarci se non c'è qualcuno che te lo indica. Eppure, è così importante. Fondamentale». Arrivano i ragazzi. Gli porgono libri, gli chiedono dediche. Lui cerca di personalizzarle. «A Francesco, con affetto». E la firma solita, solo con il cognome: «Alemanno». Una ragazza gli chiede se può dedicarlo anche al fidanzatino: «Sa, sindaco. Oggi facciamo cinque mesi che stiamo assieme». Lui alza gli occhi, depone la penna, si toglie gli occhialini da vista neri Dolce e Gabbana e gli fa: «Se volete vi sposo pure. In camera c'ho anche la fascia tricolore». Risate. Le lancette dell'orologio viaggiano verso le tre. In un angolo ancora si discute di politica. Si parla della riforma Gelmini. Sindaco, beve qualcosa? «Ma sì, dai. Andiamo al bar. Ma per me solo Coca Cola». Nel pub dell'hotel ci sono le luci un po' soffuse, i divanetti in pelle tra il rossastro e il marrone scuro. Lui si siede, leggermente in punta. E ora? Qual è il prossimo obiettivo? «Andare avanti con i Viaggi della Memoria. A febbraio andremo alle foibe, faremo come qui: una tre giorni». Alle foibe? Alemanno si spinge in un angolo del divanetto. Accavalla le gambe. Si prende un attimo e scende sul personale, ricorda: «Mio padre ha combattuto la Seconda Guerra Mondiale nell'ex Jugoslavia. E mi raccontava». Combattuto? «Sì, era un ufficiale dell'Esercito. Era nel Genio. Dopo la guerra è tornato a Bari, dove sono nato. E poi venne mandato negli anni Sessanta a Udine. Me li ricordo gli anni di Udine. Di quello che era successo si sapeva poco. Non c'era nulla sui libri, nulla sui giornali. C'era la tradizione orale, i vecchi ci raccontavano a voce ed erano racconti orribili. Dopo siamo andati a Padova. A Piacenza. E la situazione era la stessa. Ci sono pezzi di storia nazionale che sono sconosciuti. I ragazzi devono sapere. Tutta la storia del Novecento, tutta». Arriva il bicchiere di Coca Cola. C'è del ghiaccio ma manca qualcosa. Il sindaco lo afferra, va al bancone e chiede un po' di limone. Poi torna al divanetto e si scusa: «La bevo sempre con una fettina». Sorseggia, posa l'involucro di vetro sul tavolino bianco facendosi spazio in una selva di bicchierini di vodka, boccali di birra vuoti lasciati dai clienti precedenti. Alemanno pensa al giorno dopo. L'incontro con il presidente del Parlamento a Varsavia, «il Fini polacco», fa lui. Ma fa anche le immersioni? «Mah, chissà. Magari nel Baltico», e sorride. Ma soprattutto pensa all'incontro con monsignor Stanislaw Dziwisz. Più noto come il «segretario del Papa», il segretario di Karol Wojtila tornato a Cracovia come cardinale. Proprio lì dove Giovanni Paolo II fu cardinale prima di diventare Pontefice. «È un uomo straordinario. Anche molto simpatico. Avete visto lo sguardo?» e si porta le dita a circoscrivere l'area degli occhi. «È lo stesso, lo stesso di Giovanni Paolo II». In effetti la mattina successiva non sarà un semplice saluto. Il cardinale Dziwisz non si limiterà a parole di circostanze ma ricorderà come il Papa ha sempre interpretato il pontificato come «uomo che deve costruire ponti, ponti tra le religioni, tra mondi diversi». Alemanno annuisce, mormora: «È quello che vogliamo fare». Il suo primo viaggio ad Auschwitz è finito, l'anno prossimo cambierà. Un nuovo corso è cominciato.  

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