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C'è una differenza tra un'azienda fallita e una "rinata"

Alitalia

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E la faccenda si spiega. Se si gratta sotto quel sentenzioso e noioso polemizzare o parteggiare non c'è, invece dovrebbe esservi, l'apporto del manager collaudato per scienza ed esperienza. C'è soltanto il desiderio malsano che la ricetta di Berlusconi per salvare Alitalia dalla bancarotta, intelligentemente elaborata da chi sa far di conto, fallisca perché non si possa dire che il Cavaliere è riuscito laddove non è riuscito il suo predecessore: spazzato il pattume a Napoli e dintorni, e salvata Alitalia in zona Cesarini. A questo si è ormai ridotto il dibattito politico nostrano, un tempo non remoto zeppo di idealità e di cartesiana ragionevolezza. Se poi il nostro Tizio volesse conoscere quanti e quali potrebbero essere gli esuberi da ristrutturazione aziendale, le cifre che quotidianamente si leggono mutano all'insù o all'ingiù con la stessa velocità con cui nelle stazioni ferroviarie cambia il ritardo dei treni. E anche qui la cosa si spiega. La ristrutturazione di Alitalia non si fa con le ipotesi astratte o dottrinarie, ma con le scelte concrete che il management giudica azzeccate e convenienti nel breve, medio e lungo periodo. Anche perché le incognite in un mercato agguerrito e oramai a misura del pianeta, sono tantissime. Corrado Passera, amministratore delegato di Banca Intesa Sanpaolo, che ha tessuto con certosina pazienza e alta professionalità la tela del nuovo progetto Alitalia, rilasciando una puntuale intervista al Corriere della Sera, ha fatto sapere che il presidente di Air France, Spinetta, «ha confermato che la loro medicina sarebbe stata del tutto inefficace per risanare Alitalia a causa dell'impennata del prezzo del petrolio». Nel frattempo da noi, in Italia, si continua a discutere e dissertare intorno alla soluzione francese che sarebbe stata migliore di quella faticosamente uscita dalla bravura di Passera. Non è tutto. Mentre stiamo scrivendo i soci della Compagnia aerea italiana (Cai) dovrebbero aver presentato l'offerta al commissario Augusto Fantozzi per aprire un dialogo costruttivo con le numerose sigle sindacali, interessate alle ricadute occupazionali del nuovo progetto. Epifani chiede che la trattativa non si svolga all'insegna del «prendere o lasciare», ma che si discuta prima sul «piano industriale» e dopo sugli esuberi. L'osservazione del leader della Cgil ci pare condivisibile perché il «piano industriale» è una sorta di teorema e gli «esuberi» il conseguente corollario. A condizione però che le tre maggiori Confederazioni leggano il «piano» con una mentalità non soltanto categoriale ma anche manageriale, perché, salvando la compagnia di bandiera, se da un lato si producono esuberi da sistemare con professionalità, da un altro lato l'italianità della nuova Compagnia rafforza le chance del Paese in campo turistico, e lo rende più aperto all'interscambio commerciale e all'internazionalizzazione del traffico. Per dire che salvare e rilanciare Alitalia ha pure significativi risvolti positivi in termini di ripresa della nostra stagnante economia. Se così è, come è, un sindacato responsabile non può non farsene carico. Di solito i consigli sindacali non richiesti vanno presi con le molle, discorso diverso se essi contengono e apprezzano la tanta differenza che passa tra un'azienda fallita o rinata.  

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