Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Gomorra guarda Gomorra

Cinema Barnoe, Melito (NA)

  • a
  • a
  • a

E degli scissionisti che decidono di ribellarsi. Non volevano più sottostare al figlio del boss Ciruzzo 'o milionario. Della guerra e dei morti, delle sparatorie di tre anni fa che hanno portato questo quartierone alla ribalta delle cronache mondiali. Non c'è cinema, dunque. Ci sono i cartelli pubblicitari di Gomorra, il film di Matteo Garrone in concorso a Cannes tratto dal libro di Roberto Saviano e che racconta proprio di quella guerra del 2005. L'invito è di andare a vedere la pellicola al cine-teatro Barone nella vicina Melito. Bisogna fare un paio di chilometri nel vialone della monnezza. Il Barone è un vecchio cinema di periferia. Di quelli che non si vedono più. Stile anni Sessanta, un grande salone di ingresso con le luci gialle, un pavimento anni Cinquanta, il botteghino a sinistra, un bancone che funge da bar sulla destra con lo stesso anziano signore che stacca i biglietti e poi attraversa il salone per servire Coca-Cola e acqua minerale. Non si vendono birre, solo qualche biscotto salato e pop corn già cotti, certo non invitanti. La sala per la visione è molto grande, seicento posti con le poltroncine in tessuto rosso, il maxischermo raccolto in un grande sipario di velluto dello stesso colore: all'occorenza diventa palco per il teatro. Il biglietto costa 4,65 ma te ne fanno pagare cinque se non sei della zona, ed è meglio non chiedere spiegazioni. Il pubblico arriva lentamente e piano piano prende posto. Ci sono quattro coppie di mezza età, i mariti si siedono su una fila, le mogli su quella davanti. Parlottano. Poi arrivano i «guaglioni». Nel film, che è girato d'estate, non viene mostrata un'usanza locale: i ragazzi vestono prevalentemente in tuta. È una moda che lanciò il primo grande boss di Secondigliano, Gennaro Licciardi, 'a signa, la scimmia, per il suo aspetto animalesco: morì in carcere quindici anni fa per un'infezione. Licciardi vestiva sempre in tuta da ginnastica per essere più agile e pronto a scattare. Anzi, a scappare. Un capo deve essere pronto all'azione. Da allora anche i «bossetielli», gli aspiranti tali, comunque chi vuole essere rispettato, sono sempre in tuta come se stessero per andare in palestra. Tute di marca. Quella del Calcio Napoli, o di qualche griffe americana. Non prendono posto assieme, si mettono distanti i ragazzi come se non volessero farsi notare. Il film come il libro provocano fastidio. Saviano per loro non è pericoloso, ti dicono che è solo «un buffone che s'è fatto i soldi sul sistema» che poi è il modo in gergo per chiamare la camorra. Alla fine gli spettatori saranno appena 57 per lo spettacolo principale della sera. Un flop. Comincia il film, la prima scena è quella di un gruppo di ragazzi che si sta facendo le lampade abbronzanti e viene trucidato da altri guaglioni ex amici. Il pubblico mormora, due ragazzi commentano: «Ua, comme se so' fatt bell», come li hanno ammazzati bene. La pellicola scivola via si cominciano a vedere spezzoni di Scampìa, gli spettatori li riconoscono. Spunta nella narrazione il boss casertano che parla con una inflessione quasi pugliese e ammonisce i due ragazzini che giocano a fare i capetti: «Ve taglio 'a chepa», mentre in napoletano si dice «a' capa», la testa, vi taglio la testa. E in sala si ride. Si odono commenti: «Hai sentito che ha detto?». Il boss casalese viene deriso: «'A chepa! Ma come parli!». E poco dopo nella scena successiva sul grande schermo anche i due attori-piccoli boss prendono in giro l'omone del Casertano per quella buffa pronuncia. Il film si scalda. I clan dell'area nord di Napoli nella finzione cinematografica (ma è accaduto sul serio) cominciano a guerreggiare e la battaglia attraversa le famiglie. Maria si ritrova il marito in carcere per un clan, e il clan la mantiene, e il figlio che sta per andare con gli altri, gli scissionisti. Lei spiega il suo dramma all'emissario del boss che prova a tranquillizzarla e le garantisce che i ribelli perderanno. Ma qui la sala è a due passi dal quartier generale degli scissionisti. Per questo il pubblico mormora. I ragazzi inveiscono contro il grande schermo e protestano con l'uomo del boss di Secondigliano: «Si' proprio sicure che vincite vuje?», sei proprio sicuro che vincete voi?. E un altro insiste: «Vire che po' fennesce e n'ata manera», vedi che poi finisce in un altro modo. Un terzo si fa minaccioso: «Statt accuort». Finzione e realtà si fondono. Come quando accadeva con i film di Sylvester Stallone, il pubblico si accendeva come allo stadio e cominciava ad incoraggiare il suo beniamino. Come coi film di Don Camillo e Peppone. Ma quelle erano storie inventate. Erano vicende tutt'al più tratte dalla realtà. Qui no. Gomorra racconta fatti accaduti, eventi successi. Non sono quartieri immaginari, qui è proprio l'epicentro delle storie narrate e dei set dove tutto è successo e dove sono state anche girate le scene del film. Il film è finito, si accendono le luci. Le quattro coppie di mezza età si guardano interdette. E uno dei mariti confessa: «È tutto vero, tutte queste cose noi le sappiamo. Ma vederle al cinema fa proprio impressione». Forse più della realtà. (Foto Agnfoto)

Dai blog