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Il fallimento del "piacione" che i romani non amano più

Francesco Rutelli

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Una sconfitta bruciante per chi pensava, e sperava, di essere ancora il candidato che, nel '97, al suo secondo mandato, aveva preso un milione di voti più della sua coalizione, un patrimonio personale che andava oltre la dote dei partiti. Ieri, invece, Rutelli ha avuto lo «schiaffo» di quasi centomila voti in meno rispetto al suo sfidante Gianni Alemanno. E soprattutto non è riuscito a incrementare il risultato che aveva avuto al primo turno: il 13 e 14 aprile aveva conquistato il 45,7 per cento dei voti, al ballottaggio si è fermato appena sopra, al 46,3. Mentre il suo avversario è volato oltre il 50 per cento. Ma il risultato di Rutelli vale soprattutto come sua sconfitta personale. Perché il voto di Roma si è trasformato in una sorta di referendum contro di lui: gli elettori del centrosinistra hanno infatti «premiato» Nicola Zingaretti alla Provincia ma al momento di scegliere il candidato per il Campidoglio in molti hanno preferito dare la preferenza a Gianni Alemanno. «Storicamente Roma fa da traino per palazzo Valentini — racconta un esponente diessino — Ed è stato così anche stavolta. Solo che poi c'è stata un'altissima percentuale di voto disgiunto». Insomma Zingaretti sì, Rutelli no. Una sconfitta personale amarissima per chi sognava — dopo aver fallito tutti gli obiettivi come leader nazionale — una rivincita nella città che lo aveva avuto sindaco per sette anni. «La verità è che ha sbagliato completamente la campagna elettorale — commenta Fabrizio Panecaldo, ex delegato in Comune per il piano parcheggi e terzo degli eletti in Campidoglio per il Pd — Mentre Alemanno andava in giro a parlare con la gente lui stava chiuso al comitato elettorale a parlare di futuri assessori e di poltrone. E poi anche l'insistere sul tema dell'antifascismo è stata una scelta sbagliata, la gente è stanca di sentir parlare di questi argomenti». Insomma sbagli a ripetizione per l'ex «piacione», per chi era riuscito a sconfiggere nel '93 al ballottaggio Gianfranco Fini e al primo turno nel '97 Pierluigi Borghini, rifilandogli un distacco abissale di quasi 30 punti. Era il periodo della Roma brillante e salottiera che premiava il primo sindaco eletto direttamente dai cittadini ma anche l'unico che aveva avuto a disposizione per la città una pioggia di soldi inimmaginabile: i miliardi (in lire) arrivati dalla vendita della Centrale del Latte e dalla privatizzazione dell'Acea nel '97, i 3500 miliardi a disposizione per il Giubileo del 2000. E una visibilità internazionale che lo aveva proiettato fino alla sfida (persa) con Berlusconi per palazzo Chigi. L'errore di Rutelli, secondo molti esponenti del Pd, è stato proprio questo: non aver capito che i romani non avevano dimenticato — né perdonato — l'aver abbandonato il Campidoglio per andare a fare il candidato premier nel 2001, le promesse non mantenute per la città, quell'aria da sicuro vincitore sfoderata fin dal primo giorno della sua candidatura. Un atteggiamento che ha dato ossigeno alle speranze del suo avversario. «Ci siamo accorti — racconta Andrea Augello, coordinatore del comitato elettorale di Gianni Alemanno — che mentre noi andavamo a parlare con tutti rappresentanti delle categorie cittadine, Rutelli li riceveva nel suo ufficio. Un comportamento che alla fine ha pagato pesantemente». Ma Rutelli dovrà fare i conti anche dentro il suo partito. E in particolare con i diessini, colpevoli, secondo una parte degli ex della Margherita, di non essersi spesi in campagna elettorale per il candidato del Pd. E il futuro? In consiglio comunale lo aspettano come capo dell'opposizione per continuare la sfida con Gianni Alemanno. A meno che non scelga la più comoda poltrona di senatore.

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