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Welfare, stavolta passa la fiducia ma la maggioranza non c'è più

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[...]e dire che «l'accordo nell'Unione è venuto meno». Parole che strappano gli applausi tra gli scranni di Alleanza nazionale. La tensione si taglia con l'accetta a Montecitorio nel promeriggio della fiducia al ddl sul Welfare. Prodi non è riuscito a ricucire lo strappo con l'ala estrema della maggioranza. La sinistra radicale sputa veleno, si sente messa nell'angolo, costretta a votare la fiducia «per senso di responsabilità». La vittoria dei moderati e dei diniani brucia e lo scontro degenera a tal punto che a metà pomeriggio il presidente della commissione Lavoro di Montecitorio Pagliarini dei Comunisti annuncia le dimissioni dall'incarico per protesta contro la decisione del «governo che ha spossessato il Parlamento» dell'iniziativa legislativa. In Aula arrivano le bordate di Giordano e del segretario dei Comunisti Diliberto che hanno sullo stomaco ancora le dichiarazioni di primo mattino di Prodi. Il premier ha aperto la giornata in questo modo: «C'è un momento in cui il governo deve prendere una decisione e questa l'abbiamo presa in piena coscienza». In Aula Giordano e Diliberto parlano chiaro: i vincoli con il governo sono sciolti, una stagione per la maggioranza è finita e in futuro non firmeranno più cambiali politiche in bianco. Il leader di Rifondazione è furente: «Il testo è stato cambiato con un gesto autoritario ma lo votiamo solo per non far scattare la mannaia dello scalone di Maroni». Rivolgendosi a Romano Prodi, Giordano descrive un governo succube della Confindustria e di Dini: «Chi glielo spiegherà a chi ha investito in una alternativa a Berlusconi che può restare precario a vita? Montezemolo? Non sprecheremo più un occasione, cercate di non sprecarla voi perchè questa -scandisce- è proprio l'ultima». Giordano quindi chiede «per gennaio una verifica politico-programmatica». Per Diliberto invece la verifica «è inutile» e annuncia: «Da oggi, il nostro ruolo sarà molto più incisivo, cambia tutto. Avete rotto, consapevolmente, un patto tra noi». Poi rincara la dose. Parla di «offese alla sensibilità di milioni di donne e uomini della sinistra, di milioni di lavoratori, di precari»; di un Parlamento «tenuto sotto ricatto da Lamberto Dini e da un altro senatore»; ma soprattutto di una lealtà del suo partito che d'ora in poi sarà «da guadagnare di volta in volta». Alle richieste di verifica ha risposto Fassino che nell'intervento in Aula ha cercato di smorzare la polemica e ha rilanciato: «Il Pd è pronto a discutere sul programma di governo a gennaio, a patto di partire dai dati che dimostrano che la lotta alla precarietà ha guidato l'azione della maggioranza». Ma per Dini l'esperienza di questo governo è conclusa ed è opportuno un esecutivo di «larghe intese», che potrebbe nascere sulla base di un accordo tra i partiti maggiori e che metta mano alle riforme. «Il governo è appeso a un filo, quindi non so quanto possa durare» ha sentenziato Dini. In serata è arrivata la conferma della fiducia al governo con 326 sì e 238 contrari. A fine giornata Palazzo Chigi sottolineava che «il dissenso di Pagliarini non va ignorato» e che aver «superato lo scalone è un motivo di orgoglio, non certo un compromesso al ribasso». La fiducia? «Non è stata una scelta per chiudere la bocca a qualcuno o per sottostare a ricatti».

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