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Ufficiali, a testa alta. Sempre. Anche davanti alla ...

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E non c'era meteorologo di bordo a poterla prevedere. Dunque, capitano, a testa alta. Anche se ieri mattina seguendo il feretro, tra le mani non stringeva la barra del timone, ma una rosa rossa, irta di spine. Anche se con la voce abituata a scandire comandi all'equipaggio riusciva solo a mormorare «perché, perché... non è giusto, non è giusto». Dignitoso, impietrito nel suo soprabito scuro, ha avanzato lungo la navata della chiesa del Cristo Re dietro alla bara d'acero della sua Giovanna. Ha stretto mani. Ha abbracciato, senza vederli, amici, ufficiali in divisa, uomini politici che lo attendevano nelle prime file a sinistra dell'altare. Poi ha preso posto a destra, con la famiglia. Accanto a lui la suocera Francesca. Ottant'anni, gli occhi asciutti e alti sull'altare, la mano ferma. «È la fede che le dà forza», spiega il cappellano militare don Patrizio. Giovanni quella mano la cerca più volte, è l'àncora quando la bufera si fa più violenta, quando le parole del cappellano soffiano dall'altare che la notte del suo dolore dovrà ancora arrivare, e arriverà quando «cercherai, Giovanni, la sua presenza nella casa e lei non ci sarà, quando allungherai la mano sul talamo nuziale e sarà freddo, e penserai a gesti familiari che non ci sono più. È in quei momenti - proseguiva il sacerdote - che la notte ci rende ciechi e barcollanti». E lui per un attimo barcolla davvero, si china sul banco, tira dalla tasca un fazzoletto e si asciuga gli occhi. La suocera lo stringe, gli sussurra qualcosa all'orecchio. Lui annuisce, rimette in tasca il fazzoletto, trova di nuovo il coraggio di guardare quella bara chiara dove ha appoggiato, poco prima, la rosa rossa nel cellophane. Piange in silenzio, invece, e quasi senza posa il padre di Giovanna, Mario Reggiani, pochi posti più in là. Chino sul bastone, appoggia su quel povero legno i suoi ottant'anni passati di vita e lo strazio finale della morte, inaccettabile, di sua figlia. La Marina gli ha messo accanto una giovane psicologa, un salvagente in uniforme al quale, grato, Mario s'abbraccia. Lei lo conforta, resta in piedi accanto a lui per tutta la cerimonia a sentinella del suo dolore. Lui le bacia una mano. E poi ci sono i fratelli di Giovanna, Maddalena, Luca e Paola. Guardano con gli occhi lucidi per tutta la funzione una bara che non avrebbero mai, mai immaginato di incrociare così presto. Non versano lacrime, neanche quando Luca sale al microfono dell'altare e si rivolge direttamente a lei: «Cara Giovanna - gli trema la voce - ricordo i nostri lunghi pomeriggi insieme, le nostre passeggiate, i giochi che facevamo da bambini. Ci divertivamo con le parole, le pronunciavamo al contrario». Ora quella voce, che si è spenta implorando pietà a un assassino sconosciuto, non parlerà più. «Ma il silenzio non è sempre muto - ricorda Luca - I nostri genitori ci hanno insegnato l'amore e la tolleranza». Quella «vigile tolleranza» in cui anche la sorella Paola crede con fermezza: «Ora fermate l'odio» ha chiesto al presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo; principi a cui ha aderito anche il marito Giovanni: «Sappiamo e dobbiamo distinguere le persone - a riportare le sue parole è il ministro della Difesa Arturo Parisi - Un rom da un rom, un romeno da un romeno, un italiano da un altro italiano». A fine cerimonia Giovanni, circondato dagli ufficiali, segue il feretro tra gli applausi fino al carro funebre grigio, lo accarezza un po', sussurra qualcosa. Poi il portellone posteriore si chiude. E per il capitano, occhi socchiusi dal sole e dalle lacrime, inizia la traversata più dura. Gab. San.

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