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La Russa: «Stesso blocco sociale della maggioranza silenziosa»

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Erano usciti dall'anonimato, erano scesi in piazza. E, anche se non urlavano, non lanciavano molotov contro la polizia, non scandivano slogan sanguinari, la loro protesta scosse la società italiana. Non erano ricchi, non erano poveri. Ma una via di mezzo. Erano infatti il «ceto medio», la piccola e media borghesia di un Paese quasi quotidianamente attraversato da cortei, paralizzato da scioperi, assoggettato a una «dittatura» culturale che consentiva una sola, minima «forbice» di pensiero fra la sinistra parlamentare e quella extra, fra il comunismo e la sua «malattia infantile», l'estremismo. C'era stato il '68, la rivolta degli studenti di tutta l'Europa occidentale che gridavano «è solo un debutto, continuiamo a combattere». C'era stato l'«autunno caldo» del 1969 che, come cantava Paolo Pietrangeli, era «finito con un botto», quello della carneficina di Piazza Fontana. E il 13 marzo 1971 la borghesia italiana «debuttò» nella sua marcia sfilando, come facevano i contestatori «capelloni», lungo le strade di Milano. «Il ceto medio scese in piazza mobilitato dalla destra politica - ricorda Ignazio La Russa, oggi capogruppo dei deputati di Alleanza Nazionale e allora uno dei giovani promotori della manifestazione - Era una risposta alla svolta a sinistra della Democrazia Cristiana, alla presa di potere culturale della sinistra dopo il Sessantotto e alla protesta operaia del '69. Noi del comitato cittadino anticomunista, composto da giovani liberali, socialdemocratici e del Movimento Sociale, prevedevamo non più di due-tremila partecipanti. Invece ci ritrovammo in ventimila a sfilare stringendo in pugno bandiere tricolori perché le insegne di partito erano bandite. Uno dei primi a usare il termine "maggioranza silenziosa" fu Pisanò sul giornale "Candido". Era una maggioranza silente che si contrapponeva alla minoranza rumorosa di sinistra. Loro erano i soli a parlare. Noi eravamo tagliati fuori, costretti al silenzio, appunto». Fu un segnale. Ma la classe politica non lo raccolse. La sinistra e l'estrema sinistra bollarono i manifestanti come «fascisti», ignorando il malessere di un'intera classe sociale. La destra trascurò il fenomeno che pure poteva fargli gioco in termini elettorali. «Quando nel 1972 Almirante cambiò il simbolo del partito, che divenne Destra Nazionale - ricorda sempre La Russa - considerò conclusa questa esperienza. E probabilmente fu uno sbaglio». Undici anni dopo l'egemonia social-comunista doveva subire un altro, ben più duro colpo. I tempi erano cambiati. Gli studenti restavano più spesso in classe o nelle aule universitarie, il «movimento» sorto dalla protesta sessantottina era degenerato nella violenza sfociata con gli scontri del 1977, il terrorismo brigatista (insieme a quello «nero») imperversava mietendo vittime più o meno illustri e allontanando la gente dalle farneticanti parole d'ordine dei «rivoluzionari», l'operaismo era ormai un ricordo lontano e sbiadito. Le lotte dei lavoratori, che partivano spesso da legittime rivendicazioni sindacali com'era stato nel '69, incontrarono la loro definitiva «Caporetto» a Torino, nello sciopero esasperato degli operai Fiat passato alla storia come i «35 giorni». Ai picchetti e al blocco della fabbrica attuati per scongiurare migliaia di licenziamenti, i «colletti bianchi» reagirono anche in questo caso in modo anomalo per loro: con un corteo. Fu la «marcia dei 40 mila», considerata una vittoria della borghesia. «Nel 1980 finisce l'egemonia culturale della sinistra e la marcia fu una risposta all'egemonia sindacale», dice La Russa. Ma si può definire quella dei professionisti scesi sul piede di guerra contro il decreto Bersani una maggioranza silenziosa? La Russa pensa di no. Anche se l'estrazione sociale dei manifestanti è molto simile. «Oggi non c'è più l'egemonia della sinistra, come dicevo, ma solo il tentativo di conservarla e c'è stato un governo di centrodestra durato cinque anni - conclude il parlamentare di An - Le motivazioni sono completamente diverse. L'unica somiglianza è il

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