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di LUIGI FRASCA HANNO rischiato.

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Prodi comunque ha capito che al Senato la guerra con la Cdl sarà sempre più dura e che i numeri della maggioranza sono assai «ballerini». Ieri infatti la fiducia è passata con 159 voti, uno in meno rispetto ai 160 con i quali era stato approvato il testo del decreto Bersani. Assenti cinque senatori a vita su sette — Scalfaro, Ciampi, Pininfarina, Andreotti e Cossiga — stavolta è mancato anche il voto di Luigi Pallaro, eletto nella circoscrizione dell'America Latina. Ed è stato proprio su quella preferenza in meno che la Cdl, alla fine della votazione, ha protestato a lungo, contestando la validità del voto perché non ci sarebbe stato il numero legale. Tesi che l'Unione non ha accettato: il numero legale c'è — hanno ribattuto — perché il presidente del Senato Franco Marini è presente ma non vota. Durissime le repliche della Cdl, soprattutto da parte del capogruppo di Forza Italia Renato Schifani. «Contestiamo questa seduta e questo voto di fiducia — ha proseguito — Per noi stasera non vi è stato voto di fiducia nei confronti del governo Prodi. Non è mai successo nella storia del Senato che il presidente dell'assemblea venga computato nel risultato del voto. Penso che domattina ci riuniremo per un ulteriore appello al presidente Napolitano. Così non si può andare avanti. È una cosa che non ha precedenti». Secca la replica del presidente Franco Marini: «Non c'è alcun dubbio, tutto è chiaro, non è possibile alcun equivoco su questo voto». La battaglia tra Unione e Cdl era iniziata nel pomeriggio, quando la Cdl ha esposto uno striscione lungo cinque metri, con su scritto «Prodi dittatore», costato al gruppo della Lega 250 euro. Un momento di grande tensione in aula, con il leghista Massimo Polledri, che si è scagliato verso i banchi dell'Ulivo con intenti non del tutto pacifici. Ma anche per la maggioranza non è stato facile scegliere la strada della fiducia. Una scelta, ha spiegato Chiti, dovuta al fatto che «l'opposizione ha più volte ribadito la non autosufficienza del governo su questo provvedimento». Da qui la decisione di chiudere a qualsiasi ipotesi di nuova maggioranza, tema in questi giorni di un dibattito che aveva allarmato la sinistra radicale. «Il governo - ha scandito Chiti - non ha bisogno di incertezze né di maggioranze a geometria variabile. Ma di maggioranze certe». È quanto Verdi, Pdci e Prc volevano sentirsi dire, è quello che si aspettavano i cosiddetti «dissidenti», una pattuglia che all'inizio era composta da otto irriducibili e che all'ultimo giorno, sapendo della fiducia, si è raddoppiata. Ma se ieri è stata la giornata dei dissidenti, che hanno potuto ribadire la loro netta contrarietà protetti dall'ombrello della fiducia, qualche amara considerazione è venuta dall'Ulivo e, a sorpresa, da Armando Cossutta. «Il ricorso alla fiducia si ha perché è ancora troppo acerba e immatura la ricerca tra maggioranza e opposizione di una cifra comune sulla quale poter ragionare», ha osservato Anna Finocchiaro. La capogruppo dell'Ulivo a Palazzo Madama non è sembrata gioire di questa contrapposizione muscolare che ieri è andata in onda al Senato con un centrodestra all'attacco contro una maggioranza che «impedisce convergenze» importanti per «beghe interne». Anche Armando Cossutta, ormai in rotta con il suo stesso partito, non gioisce, e in Aula ha criticato il ricorso alla fiducia che «finisce soltanto per enfatizzare il peso di un dissenso minuscolo e circoscritto, dando l'impressione di una maggioranza profondamente divisa». Di «dittatura» ha parlato Roberto Castelli, che ha sottolineato che si ricorre alla fiducia «non per l'ostruzionismo dell'opposizione, né per motivi di urgenza», e si impedisce al «Senato di funzionare». Di «governo fragile» e «in affanno» ha parlato Altero Matteoli di An, e l'Udc Francesco D'Onofrio ha definito «balneare» la fiducia per un governo a suo avviso destinato a cadere in autunno. E oggi si torna di nuovo in

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