Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Il trend anti-israeliano che percorre la storia della sinistra

default_image

  • a
  • a
  • a

L'entrata del generale Moshè Dayan a Gerusalemme, mentre suona il corno, è una fotografia-notizia che fece il giro del mondo, ma che segnò un nuovo spartiacque nei rapporti tra la sinistra italiana e il mondo ebraico, appannando persino la shoa. Fu addirittura in quell'anno che nacque in Italia, la prima sede a Milano, l'Udai (Unione democratica amici di Israele) che raggruppava tutti i socialisti di area autonomista e riformista, le forze laiche come i repubblicani e i liberali, per distinguersi dalla sinistra, per difendere lo Stato di Israele, diventato ormai per la sinistra italiana, dai socialisti di sinistra (all'interno del Psi) al Psiup e al Pci, una sorta di agente dell'imperialismo a livello internazionale. Quando poi ci fu la «Guerra dello Yom Kippur» e la conseguente crisi energetica, petrolio e imperialismo si incrociarono nella visione di una grande lobby ebraica-americana che presiedeva, armi in pugno, ai destini del mondo. In quegli anni esplodeva il «Sessantotto», con Mario Capanna che girava, con fierezza, per le strade di Milano con il kefia palestinese sulla testa. Proprio «formidabili», ma al contrario, quegli anni. Perché il trend anti-israeliano dilagò dalla sinistra ai simpatizzanti «giovanilisti», ai compagni di strada, ai borghesi ben pensanti, fino dentro alle case editrici e ai grandi giornali. Passiamo invece alla metà degli anni Settanta, con Israele che deve difendersi dal terrorismo di «Settembre nero», dai vari gruppi palestinesi insediati a Beirut. Quindi con le prime guerre libanesi e con le operazioni dell'allora generale Ariel Sharon, come quelle di Sabra e Chatila, che vengono bollate a sangue dalla stampa italiana, anche quella cosiddetta borghese. Nel «grande calderone» della condanna alla politica dello Stato di Israele, si mescola anti-israelismo, anti-sionismo e anche antisemitismo. I terroristi di Al Fatah sono «martiri» anche per la sinistra italiana, anche quando il suo gruppo dirigente non vuole riconoscere l'esistenza dello Stato d'Israele. Personaggi come Leila Khaled o Abu Abbas o Hawatmeh sono «patrioti» che lottano per l'indipendenza del loro Paese contro uno Stato «fascista». Ma la situazione non cambia neppure negli anni Ottanta, con la sinistra che ora indica nella svolta di Arafat, evacuato dal Libano, una «base di trattativa» per garantire una soluzione pacifica in Medio Oriente, dimenticandosi degli sforzi di uomini come Peres e Rabin che si battono per sopravvivere e trattare. C'è sempre una strana aria in quegli anni, nel solito mondo complicato dei servizi cosiddetti segreti italiani. C'è chi parla di una divisione tra «gli uomini di Miceli» e gli «uomini di Maletti», i primi filo arabi, i secondi filo israeliani. Forse sono fantasie, millanterie, rapsodie mediatiche. Di sicuro c'è un solido rapporto tra corpi dello Stato italiano e vari gruppi palestinesi. L'obiettivo è quello di salvare l'Italia da attentati terroristici. Nelle sue lettere Aldo Moro ricorda la trattativa con i terroristi palestinesi di Fiumicino, che allo statista democristiano non salvò ugualmente la vita dalla condanna delle Brigate Rosse. Ma ci sono addirittura episodi grotteschi che documentano questi rapporti, come «l'autonomo» romano pescato dalla polizia in autostrada verso Bari, su una cinquecento dalla quale spuntava la bocca di un bazooka che doveva essere dato a un gruppo palestinese. Poi c'è un «fiorire» di libri anti-israeliani che possono riempire diverse biblioteche. Le ultime «rose», in materia di anti-israelismo e anti-ebraismo del visionario «La guerra» di Alberto Asor Rosa sono solo i cascami di un stagione culturale di antisemitismo di sinistra, che si è già consolidata da anni.

Dai blog