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Boselli rinnega la tradizione socialista annullandosi nei radicali

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c'è anche l'offesa finale ai vecchi socialisti, con il simbolo cambiato a favore di quello radicale della «rosa nel pugno», che significa buttare dalla finestra lo storico «garofano rosso» imposto ventisette anni fa proprio da Bettino Craxi. C'è una coerenza interna in tutto questo. Fu, infatti, l'azione tesa alla revisione del Concordato con la Chiesa che dimostrò al mondo che Bettino Craxi, il protagonista del socialismo riformista, era capace di essere insieme capo di partito e statista, cosa che nella storia della Repubblica ai capi socialisti non era quasi mai capitata. Egli fu statista perché accettò tutta intera l'eredità repubblicana, dall'articolo 7 ai lavori della Commissione Gonnella ed alle soluzioni di Spadolini; ma contemporaneamente non dimenticò mai di essere il capo di un partito interessato a rassicurare la Chiesa circa il suo ruolo e la sua autonomia, a prescindere dalla posizione di governo della DC. Boselli oggi fa il percorso inverso e rinuncia a quest'eredità. Non solo, va da sé, a quella del Concordato, ma anche all'idea di trasformare in grande partito nazionale quello che Bobbio, nel 1976, aveva definito «un partito medio, nella migliore delle ipotesi necessario ma non sufficiente». Com'è noto quell'idea fallì rovinosamente, forse perché era velleitaria, forse perché non fu coltivata con sufficiente determinazione. Boselli, evidentemente, opta per la prima ipotesi: non crede alla possibilità di recuperare un ruolo centrale alla cultura del socialismo italiano; perciò, e con l'aggiunta di una buona dose d'opportunismo, sceglie di annullarsi nell'abbraccio con Pannella, e della tradizione del PSI conserva solo l'aspetto più discutibile, quello appunto della «medietà». A Craxi, in fondo, preferisce Ghino di Tacco e si attrezza per presidiare al meglio la Radicofani del laicismo. Tutto questo, accade, però in un contesto in cui in Italia una «questione socialista» sembra tornare all'onore del mondo. Non tanto, purtroppo, per le convulsioni del partito di De Michelis, ma soprattutto perché, a torto o a ragione, con argomenti pretestuosi o meno è la questione socialista ad animare il confronto fra i due soci fondatori del futuro partito riformista. Che Boselli, Intini ed anche il figlio di Craxi si chiamino fuori da questo confronto è antistorico, ma è affar loro. Che se ne chiamino fuori i socialisti, invece, è affare che riguarda tutti. Un partito riformista che nascesse con lo scartare a priori le forze diffuse del socialismo italiano, che pur esistono; o, addirittura, che nascesse presupponendo l'abiura del socialismo europeo, sarebbe, infatti, l'ennesimo fuor d'opera del paradossale laboratorio politico italiano. Oggi al contrario c'è bisogno di un soggetto politico capace di discriminare il poco grano dal molto loglio presente in quel calderone che è la sinistra italiana, tutta presa a confrontarsi tra neofiti «democratici» e furbacchioni che «non vogliono morire socialisti». A me è sembrato di cattivo gusto, ed anche controproducente, che il figlio di Craxi nell'accingersi a quest'impresa abbia sentito la necessità di ricordare il detto che «occorre evitare che il morto acchiappi il vivo»; a me interessa, assai più, che l'eredità del morto non vada dispersa, o peggio rinnegata, che possa essere trasmessa limpidamente, e senza imbrogli, ai socialisti che ci sono e a quelli che verranno, perché vi si riferiscano, perché la possano utilizzare. Questa eredità si chiama anche Concordato, Sigonella, San Valentino. Si tratta di una storia complessa, fatta di luci ed ombre, ma è un'eredità nell'insieme positiva ed ancora attuale, costruita da uomini coraggiosi che hanno combattuto buone battaglie di progresso e che meritano rispetto per quanto hanno fatto. Disperderla o rinnegarla è ingiusto e non porta da nessuna parte.

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