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L'appello del Pontefice per i 60 anni della liberazione dei prigionieri di Auschwitz

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«Non cediamo alle ideologie razziste»

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È ricco di ricordi e riferimenti personali l'accorato messaggio del Papa per i 60 anni della liberazione dei prigionieri di Auschwitz, nel quale, pur con parole forti sull'orrore dell'Olocausto, evoca anche i lampi di bene che pure ci furono anche in quel luogo ed esorta l'umanità a fare tesoro perché non ci siano mai più Auschwitz. Papa Wojtyla conferma così la particolare sensibilità verso gli ebrei, che fin da ragazzo ha avuto per amici, come Jerzy Kluger, al quale nel 1989 ha fatto leggere il suo ricordo della distrutta sinagoga di Wadowice, città dove entrambi nacquero, andarono insieme a scuola, divennero amici. Era già cardinale, a Cracovia, invece, il 28 febbraio 1969 quando visitò la sinagoga del quartiere Kazimierz. Un gesto che, in qualche modo, anticipa il «viaggio più lungo» di Giovanni Paolo II, il primo di un Papa in una sinagoga (Roma, 13/4/1986), dove ha chiamato gli ebrei «fratelli maggiori». Lo stesso Giovanni Paolo II, nel messaggio di ieri, ha rammentato altri due momenti di rapporto con gli ebrei, vissuti da Papa: le visite compiute ad Auschwitz nel 1979 e a Gerusalemme nel 2000. Ad Auschwitz davanti alla lapide che, in ebraico, è dedicata a quanti vi furono privati della vita, ricorda di aver affermato e ripete che «davanti a questa lapide non è lecito a nessuno passare oltre con indifferenza». «A nessuno — ribadisce — è lecito, davanti alla tragedia della Shoah, passare oltre. Quel tentativo di distruggere in modo programmato tutto un popolo si stende come un'ombra sull'Europa e sul mondo intero; è un crimine che macchia per sempre la storia dell'umanità. Valga questo, almeno oggi e per il futuro, come un monito: non si deve cedere di fronte alle ideologie che giustificano la possibilità di calpestare la dignità umana sulla base della diversità di razza, di colore della pelle, di lingua o di religione. Rivolgo il presente appello a tutti, e particolarmente a coloro che nel nome della religione ricorrono alla sopraffazione e al terrorismo». Ancora rievocando la visita del 1979, il Papa ricorda di essersi fermato «a riflettere intensamente anche davanti ad altre due lapidi, scritte in russo e in rom», che fanno ripensare al fatto che nella guerra mondiale i russi ebbero il più alto numero di morti e che anche i Rom «nelle intenzioni di Hitler erano destinati allo sterminio totale». «Dissi anche che bisognerebbe fermarsi davanti a ogni lapide. Io stesso lo feci», pregando per tutte le vittime. «Pregai anche per ottenere, attraverso la loro intercessione, il dono della pace per il mondo». Anche a Gerusalemme, nello Yad Vashem, il memoriale della Shoah e al Muro «ho pregato in silenzio, chiedendo perdono e conversione dei cuori». Ma perfino ad Auschwitz, scrive ancora Giovanni Paolo II, «in mezzo a quell'indescrivibile accumulo di male, vi furono anche manifestazioni eroiche di adesione al bene». Persone grazie alle quali «si è resa palese una verità, che spesso appare nella Bibbia: anche se l'uomo è capace di compiere il male, a volte un male enorme, il male non avrà l'ultima parola». Allora ricordare le vittime non serve a riaprire dolorose ferite, a destare odio e propositi di vendetta, ma a rendere omaggio a quelle persone, «per mettere in luce la verità storica e soprattutto perché tutti si rendano conto che quelle vicende tenebrose devono essere per gli uomini di oggi una chiamata alla responsabilità nel costruire la nostra storia. Mai più in nessun angolo della terra si ripeta ciò che hanno provato uomini e donne che da sessant'anni piangiamo!».

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