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«Parlerò dell'Ingegnere, ma Ilda non mi chiamò più»

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Quest'ultima società, come è noto, controllava alcuni marchi molto importanti nel settore alimentare (Bertolli, De Rica, Cirio, Motta, Alemagna, Gs, Autogrill): nel 1985 De Benedetti cercò di acquistarla a prezzi stracciati (anzi, era convinto che la cessione fosse già stata formalmente effettuata), la cordata Berlusconi-Barilla-Ferreo si oppose, ci fu un contenzioso giudiziario e il Tribunale diede torto all'Ingegnere, impedendogli di concludere l'operazione. Nel 1990 io ricevetti, per le regionali, un contributo elettorale di un miliardo da Franco Ambrosio. Quest'ultimo, quando poi fu arrestato, nella primavera del 1994, tra le tante bugie necessarie per uscire dal carcere, disse anche che quei soldi li aveva ricevuti dal grande e indimenticabile Pietro Barilla, che lo aveva incaricato di farli arrivare a me. Di qui era nato il teorema secondo cui Ambrosio e io eravamo stati i tramiti per corrompere i giudici romani nell'interesse di Berlusconi, Barilla e Ferrero. Almeno così ho pensato. La notizia non mi turbò più di tanto, perché ai teoremi più strampalati ormai avevo fatto il callo. Aspettavo la chiamata dalla Procura. Qualche giorno dopo, infatti, mi arrivò puntuale da Milano l'avviso a comparire come persona informata dei fatti. Era firmato da Ilda Boccassini. La chiamai subito per chiedere di spostare l'interrogatorio, per ragioni di salute; domandai anche se fosse possibile essere sentito a Roma. L'ufficio della Procura ne prese atto e mi rispose che mi avrebbe mandato una nuova convocazione. Due giorni dopo fui avvertito da un uccellino che il mio cellulare era stato messo di nuovo sotto controllo. Da alcuni anni, ormai, i magistrati di diverse Procure erano in ascolto e io non mi ero mai preoccupato. Ma quella volta mi arrabbiai. Allora chiesi subito a un mio amico, Andrea Ratti, di telefonarmi sul cellulare controllato e di chiedermi che cosa fosse questa dannata storia della Sme. Ratti mi chiamò e io risposi che ero angosciato dalla vicenda. «Da una parte» dissi «mi piacerebbe andare a parlare subito con Ilda la rossa perché come donna mi piace molto e vorrei proprio... Ma dall'altro sono perplesso perché in qualità di testimone non potrò avvalermi della facoltà di non rispondere e dovrò dire la verità». «Qual è la verità?» insistette Ratti. «la verità è che nel 1985» risposi io «ci fu un vero e proprio accordo (i magistrati di Milano lo definirebbero corruttivo, io preferirei dire di potere) tra il potente segretario Dc Ciriaco De Mita e Carlo De Benedetti. Di questo accordo mi aveva parlato l'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giuliano Amato, che mi confessò di avere le prove della corruzione e di essere pronto a mandarle all'Inquirente non appena il ministro delle Partecipazioni Statali Clelio Darida avesse dato il via libera alla vendita della Sme». Continuai dicendo, sempre attraverso il telefonino intercettato, che «quell'accordo, del resto, lo conoscevo anch'io perché me ne aveva parlato in maniera garbata il mio amico De Benedetti nella sua casa nei pressi di piazza Farnese, dove spesso ero invitato a colazione». E inoltre, aggiunsi, «fu lo stesso De Mita a dirmi che nell'interesse della Dc era necessario proteggere l'Ingegnere contro l'arroganza di Creaxi e Amato. Per questi motivi, concluse Ciriaco, nel dibattito che si doveva tenere nella commissione Bilancio, che allora presiedevo, bisognava assolutamente dare una mano a Darida e mettere in minoranza il Psi». Ecco, dissi a Ratti concludendo la telefonata «se la Boccassini mi richiamerà dovrò raccontare tutto questo, a cominciare dall'accordo tra De Mita e De Benedetti». La Boccassini non mi richiamerà mai più. * Il capitolo sul «caso Sme» del libro di Geronimo (alias Paolo C

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