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«Paolo VI e il riscatto per Moro»

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L'appuntamento decisivo fu fissato a Milano proprio quel fatale 9 maggio

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Si pone l'angoscioso quesito sulla ripresa del brigatismo; con l'aggravante di una situazione internazionale turbolenta, i cui sviluppi possono favorire rinascite eversive e comparsa di nuovo terrore. Il quadro politico del 1978 era abbastanza netto: allo sviluppo di equilibri nuovi, dopo ventinove anni di feroce opposizione comunista ai governi di centro, storico o no che fosse, un compromesso era stato trovato; nella convinzione che se non si bloccavano l'erosione gruppuscolare e lo scivolamento della pubblica finanza il caos avrebbe travolto tutti. I due grandi partiti popolari dovevano trovare almeno un armistizio costruttivo. Tessitori furono Moro e Berlinguer; quest'ultimo giustamente insofferente della pesante eterodirezione moscovita. Sullo sfondo dell'intesa vi era a sinistra l'abbandono dei pregiudizi contro la Nato e contro l'Europa comunitaria; da parte nostra ci impegnavamo a provocare una crisi ministeriale se i comunisti avessero ritirato il consenso. Tutto questo nel 1976 con il governo monocolore democristiano con la non sfiducia (splendide risorse della lingua italiana) da parte comunista. Moro volle che fossi io a comporre il governo, potendo dall'esterno assicurare lo sviluppo della linea. Per due anni funzionò, sia pure attraverso difficoltà, perdurare di dissensi anche non marginali e timori di incomprensioni estere. Era però necessario un passo avanti; se non era possibile immettere i comunisti nel governo, bisognava concordare almeno un programma comune. Le basi dei due schieramenti in non piccola misura tentennavano; tanto che era impossibile fare riunioni comuni. Tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù non c'era possibilità di colloquio. Comunque il programma comune si concretò deludendo tuttavia i comunisti nella composizione del governo, lasciando al loro posto anche oppositori della linea, come Carlo Donat Cattin. A poche ore dalla presentazione del Ministero alle Camere avvenne l'imboscata di via Fani. È vero: eravamo impreparati, anche se a vari livelli le brigate avevano colpito duro. Ora si poneva una tragica scelta: accettare il ricatto e darla politicamente vinta agli assassini o caricare su Moro il peso di una drammatica testimonianza. Non solo la Dc, ma la gran parte delle forze politiche e tutte le Confederazioni sindacali furono per la fermezza. Eravamo sicuri che al nostro posto Moro avrebbe agito così. Sorvolo qui su tutto lo svolgimento del dramma. L'unica speranza effettiva di liberazione venne dal Papa che era sconvolto per la sorte del vecchio amico fucino. Condivise in pieno la linea della fermezza, ma fece mettere in moto un meccanismo di riscatto con l'offerta di una cifra iperbolica. Monsignor Macchi ha descritto tutto in una cronaca, edita dopo la morte, del "contatto vaticano" ad evitare che si tirasse in ballo la liceità civile del segreto confessionale. L'altro contatto era veramente qualificato o si trattava di lestofanti? Purtroppo l'appuntamento ritenuto decisivo fu fissato a Milano proprio il fatidico 9 maggio. Mentre nella stessa data si apprese poi che avrebbe potuto svilupparsi un dissenso interno dei brigatisti. Il resto è noto. Non dimenticabile fu il rito funebre a San Giovanni in Laterano quando il Papa, affranto, arrivò a rimproverare il Signore per non avere accolto la sua accorata preghiera. I brigatisti avevano avuto un successo, ma la guerra non la vinsero. Con tutte le lacerazioni intervenute il sistema democratico non crollò. Oggi dobbiamo affrontare un rischio di ripresa offensiva che il clima internazionale infuocato e polemico rischia di far precipitare. Speriamo che Giovanni Paolo II non debba rimproverare Iddio, di cui è Vicario, di non averlo ascoltato.

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