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Francesco Vaia: "Ecco come salvare e rilanciare la sanità"

In vista del voto nel Lazio, la ricetta di Vaia del direttore dell'Istituto nazionale malattie infettive: «Possiamo far crescere tanti piccoli Spallanzani»

D. V.
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La sanità è l’argomento che più sta animando la campagna elettorale per le regionali nel Lazio. Sia perché Alessio D’Amato è l’assessore uscente alla Sanità, sia perché veniamo da una pandemia di cui oggi vediamo anche le conseguenze economiche: sono pochissimi gli ospedali laziali con un bilancio sano. Uno di questi è l’Istituto nazionale di malattie infettive Spallanzani di Roma, diretto da Francesco Vaia, che nei mesi più drammatici ha svolto un ruolo guida per il Paese nella lotta al Covid.

Professore, quali ripercussioni ha avuto la pandemia sul nostro Sistema sanitario nazionale?
«Come ho detto più volte, la pandemia è stato un banco di prova per la nostra sanità pubblica e anche uno spartiacque: da un lato il Medioevo, dall’altro la modernità e l’innovazione. Il sistema complessivamente ha retto, e anche bene, ma il disvelamento delle criticità, note da tempo, pone l’esigenza improcrastinabile di trovare subito un rimedio.

Come?
Occorre recuperare i ritardi accumulati, per esempio in termini di screening e di liste di attesa, tornando a dare importanza a quelle patologie trascurate durante la gestione dell’emergenza, le malattie oncologiche e cronico-degenerative. Penso anche che occorra intervenire dal punto di vista sociale, soprattutto su quelle fasce di popolazione più colpite dalla pandemia e dall’isolamento sociale: gli anziani e i giovani. Gli anziani hanno avuto il maggior danno in termini di mortalità, ma anche di qualità di vita, talvolta a causa di un iperprotezionismo fuori luogo e nocivo. Ricordo a tal proposito la colpevolizzazione operata nei confronti dei giovani, accusati di essere portatori del contagio, che vivevano già il dramma della chiusura, talvolta improvvida, delle scuole e dei luoghi di socialità. È un fatto l’aumento del tasso di violenza e di suicidi, manifestazioni apparentemente opposte che esprimono però lo stesso disagio sociale sperimentato dai nostri ragazzi».

Le chiusure dunque avrebbero esasperato il disagio sociale?
«Abbiamo chiuso le scuole perché non eravamo capaci di risolverne il problema strutturale, come è avvenuto anche per tutte le altre strutture di lavoro e di socialità. Si pensi per esempio alle ridicole soluzioni, proposte da alcuni, di aprire le finestre per arieggiare gli ambienti, costringendo gli alunni a tenere il cappotto d’inverno, quando sarebbe bastato puntare sulla ventilazione meccanica. Mi risulta che su questo tema Governo e Ministero si stiano muovendo nella giusta direzione. Voglio anche ricordare che dallo Spallanzani siamo stati i primi ad invocare con buon senso la riapertura degli eventi di socialità: si pensi al mondo del calcio, del cinema, del teatro, della musica. Siamo sempre stati per una ragionevole gradualità, ma sempre guardando avanti.

Lei propose al governo di mitigare le misure di isolamento e quarantena.
«Qualcuno prospettò anche allora conseguenze tragiche, ma come le prove dei fatti avrebbero dimostrato, i catastrofisti avevano torto. Come Spallanzani abbiamo sempre denunciato che la risoluzione del problema non poteva essere demandata soltanto al mondo della sanità e che bisognava adottare una visione sindemica, individuando risposte di sistema, che dessero ragione della complessità e della molteplicità degli interventi richiesti. Troppo spesso abbiamo guardato al dito, non al problema».

Quale è stata la lezione della pandemia?
«In termini di sanità riguarda innanzitutto il rapporto tra ospedale e territorio. Quest’ultimo è lo snodo per la risoluzione di molte problematiche che purtroppo si sono spesso riversate sugli ospedali. Rinforzare il territorio significa fornire presidi, farmaci innovativi e servizi diagnostici performanti, dobbiamo colmare il vuoto che c’è tra medici di medicina generale (mmg)e ospedale: la telemedicina svolgerà in questo senso un ruolo decisivo, ma nella integrazione occorre oggi anche una struttura intermedia per la bassa e media intensità assistenziale, una Nursing Home di composizione prevalentemente infermieristica e anche magari con personale medico di esperienza, che possa mettere a disposizione di tutti il proprio ruolo di tutoraggio».

Pensa a dei piccoli hub di prossimità?
«Sul territorio serve un approccio multidisciplinare, che integri mmg, specialisti ambulatoriali e componente infermieristica. Tutte queste figure professionali vanno numericamente potenziate e formate. Il nuovo operatore sanitario del territorio avrà bisogno anche di un rinnovato percorso formativo che possa arricchirsi dell’esperienza maturata dai grandi centri di ricerca, Irccs e Università, e a tal fine è necessario rivedere la rete formativa».

E per quanto riguarda gli ospedali?
«Mi permetta di parlare intanto dell’ospedale che dirigo: allo Spallanzani abbiamo dimostrato che il Sistema sanitario nazionale è ancora sostenibile e performante e che è possibile garantire ottima qualità senza operare tagli ai servizi offerti, anzi. Vorrei segnalare che dopo il pareggio di bilancio, gli ultimi due esercizi finanziari si sono chiusi in attivo. È stato possibile attraverso un corretto percorso di razionalizzazione e ottimizzazione delle risorse. In generale, le strutture ospedaliere devono diventare sempre più specializzate e non vicariare le funzioni che spettano al territorio, col quale devono invece intrattenere stretti rapporti, anche in termini di trasferimento dell’innovazione e della ricerca, soprattutto per quanto riguarda gli Irccs e i policlinici universitari, che dovrebbero caratterizzarsi per la complessità e l’innovatività dei loro interventi sanitari. Questo non vuol dire necessariamente, per i Centri ad elevata specializzazione, astrarsi dal sistema sanitario nel suo complesso».

Cosa è possibile fare di concreto?
«Nel corso della pandemia abbiamo dimostrato come, attraverso le Uscar (Unità speciali di continuità assistenziale regionale, ndr), sia stato possibile esportare rapidamente nel territorio, fino al domicilio del paziente, strumenti e strategie di intervento fortemente innovativi, per certi versi sperimentali, messi a punto nelle strutture ospedaliere ad alta specializzazione. Ed attraverso la telemedicina ed i teleconsulti è possibile portare al paziente le consulenze al di fuori dei centri specialistici. È evidente che servano fondi consistenti per potenziare innovazione e ricerca, soprattutto nel settore pubblico: dobbiamo rappresentare il tabernacolo dove si custodisce gelosamente la libertà della scienza dall’interesse economico e dalle influenze geopolitiche. In definitiva la rete ospedaliera va integrata col territorio, preservandone però una sua identità. Quindi penso ad esempio all’ospedale della madre e del bambino, degli organi di senso, del cuore polmone e al trauma center. Se posso sintetizzare il tutto con un’espressione, tanti piccoli Spallanzani crescono».

E la rete dell’emergenza?
«Molte delle criticità riscontrate nella rete dell’emergenza sono anche in questo caso il frutto della mancata integrazione tra rete ospedaliera e territorio: basti pensare che erano anziani molti dei pazienti che in questi mesi stazionavano nelle lunghe file dei pronto soccorso. Occorre poi ripensare anche alla collocazione degli ospedali con sede di pronto soccorso e, così come avviene in gran parte del mondo, posizionarli lungo la cintura dell’area metropolitana. Infatti, dovendo questi presidi occuparsi delle patologie tempo -dipendente è evidente che la loro collocazione spesso in zone difficilmente accessibili a causa della conurbazione e del traffico delle grandi città renda arduo intervenire nei tempi previsti dalle linee guida. Rivedere quindi la rete delle emergenze è oggi un tema quanto mai improcrastinabile. A ciò bisogna aggiungere un altro grande tema che rischia di affondare i pronti soccorso, che è il tema della fuga dei medici».

A cosa si riferisce e cosa propone?
«Bisogna tornare a dare maggiore appeal alla professione di medici e infermieri, anche in termine di retribuzione, soprattutto per chi lavora appunto in pronto soccorso e in condizioni difficili e ad alto rischio. Bisogna rendere certo e meglio remunerato il lavoro di coloro che prestano servizio a partire dai luoghi dell’emergenza e delle criticità. Si tratta di puntare molto sulla stabilizzazione, retribuzione e valorizzazione del capitale umano. Anche qui, uscendo fuori dalle metafore, dico una cosa che è possibile raggiungere: fuoriuscire da una visione ragionieristica della sanità per favorire la persona, sia il malato che l’operatore».

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