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La sinistra commissaria la democrazia: per governare provino a vincere le elezioni

Cicisbeo
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Ci risiamo: dopo nemmeno un anno dal giuramento del governo di centrodestra sono già iniziate le grandi manovre per preparare la strada a un nuovo governo tecnico: ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere, e ha fatto bene la premier a stroncare sul nascere il grande sogno della sinistra che qualche autorevole notista politica si è già premurata di concretizzare con scenari tanto affascinanti quanto altamente improbabili: dal correntone che il solito Franceschini starebbe allestendo intorno alla Schlein per costringerla ad accettare un’alleanza simil-draghiana alle fibrillazioni leghiste dentro la maggioranza; dalla Germania che finanziale Ong per destabilizzare l’Italia all’arma letale che fece fuori Berlusconi nel 2011, ossia lo spread. Che però, mentre allora veleggiava sopra i 500 punti (e la manona tedesca ci fu eccome), ora fa solo capolino sopra quota 200 per poi tornare subito su livelli molto più tranquilli di quelli precedenti al governo Meloni. Ma non c’è nulla da fare: la sinistra proprio non ce la fa a stare all’opposizione, allo stesso modo con cui non riesce a vincere le elezioni, ma questo evidentemente è solo un dettaglio per chi si ritiene legittimato a commissariare la democrazia.

 

 

Meloni lo ha detto con garbata ironia: «La preoccupazione dello spread la vedo soprattutto nei desideri di chi immagina che un governo democraticamente eletto che sta facendo il suo lavoro, che ha stabilità e una maggioranza forte, debba andarea casa per essere sostituito da un governo che nessuno ha scelto». Parole inequivocabili, ma che non basteranno certo a fermare le manovre di chi ancora una volta sta mestando nel torbido per replicare un copione già visto troppe volte. Il denominatore comune di queste operazioni è stato sempre lo stesso: la presunta difesa dell’interesse nazionale, che per la sinistra non coincide mai con la volontà degli elettori che le voltano sistematicamente le spalle. Il fatto è che il Pd, fin dalla sua nascita, è stato un corpo malato, nato dalla fusione tra due storie diverse e dilaniato da correnti tenute insieme solo dalla gestione del potere. Dopo Veltroni, non è stato più capace di trovare un baricentro politico, e alla vocazione maggioritaria ha sostituito una rassegnata presa d’atto del suo carattere irrimediabilmente minoritario. Da qui la ricerca di alleanze di ogni tipo, l’oscillazione fra velleitari progetti di santa alleanza contro Berlusconi (tutti dentro, da Di Pietro a Fini), tatticismi politici e fumosi slogan sul tipo del «nuovo Ulivo». Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il Pd è rimasto un partito senza identità, ora perfino esposto alle incursioni esterne modello Schlein, e sempre più incline alle manovre di Palazzo per partorire governi tecnici, esecutivi di responsabilità nazionale o ribaltoni fratricidi sul modello Renzi-Letta, epigoni perfetti della staffetta D’Alema-Prodi ai tempi del primo Ulivo.

 

 

Insomma, i compagni se ne facciano una volta per tutte una ragione: in democrazia per andare al governo bisogna vincere le elezioni, e negli ultimi trent’anni troppo spesso si è derogato a questa regola aurea, soprattutto per le incursioni improprie della magistratura contro Berlusconi: i governi Dini, Monti e Draghi (e prima ancora Ciampi) non sono stati le eccezioni, ma sono divenuti quasi la regola, e questo poteva essere giustificabile quando dalle urne usciva un esito incerto. Ma un anno fa la vittoria del centrodestra è stata limpida e netta, e al suo interno non paiono esserci aspiranti epigoni di Fini nel 2011. Un autentico sistema democratico si basa sulla sovranità popolare, imperniata sulla riconducibilità dei governanti al popolo, e sulla possibilità per questo di controllarne l’operato e farne valere la responsabilità nel momento elettorale: sono dunque le maggioranze legittimate dal voto ad avere il diritto e il dovere di stabilire l’indirizzo politico del Paese. Il Pd riponga dunque negli armadi (al Nazareno di certo non mancano) le grisaglie ministeriali: in questa legislatura non c’è spazio per altri ribaltoni.

 

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