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Terzo polo, il Centro resta un'illusione ottica: è fallito il tentativo di Renzi e Calenda

Riccardo Mazzoni
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Il dilemma che sta agitando le acque del Terzo Polo e segnando un’evidente diversità di strategia tra i promessi sposi Carlo Calenda e Matteo Renzi (partito unico subito o dopo le europee?) è la plastica dimostrazione di quanto sia difficile dare un orizzonte stabile a un partito di centro, quella terra di nessuno che negli anni ha visto naufragare molteplici esperienze politiche nate suscitando grandi aspettative poi sistematicamente deluse. Il tentativo di affrancarsi dal bipolarismo guerreggiato per creare un baricentro in grado di arginare sovranismi e populismi, insomma, finora si è rivelato solo un’illusione ottica, anche perché lo schema è stato sempre più o meno lo stesso: l’unione fra cespugli puntellata da supporti provenienti sia da sinistra che da destra, con la benedizione di qualche figura di prestigio esterna alla politica. Il primo fu Dini, poi è stata la volta di Monti, due tecnici reduci da Palazzo Chigi, i cui partiti hanno avuto entrambi vita breve per mancanza di amalgama e di radicamento effettivo nel Paese. Ora ci stanno provando Calenda e Renzi, che sono politici a tutto tondo, ma il loro patto alla vigilia delle ultime politiche è la risultante di uno stato di necessità (il superamento della soglia del 4%) col retropensiero di dare forma a una sorta di «partito di Draghi» senza il coinvolgimento diretto del premier. Un messaggio che ha in parte funzionato il 25 settembre, consentendo così a una piccola nomenklatura di tornare in Parlamento, ma poi è seguito il flop delle regionali, a conferma che il centro resta il luogo a cui si deve tendere per governare, ma che una proposta dichiaratamente centrista non ha un sufficiente appeal elettorale.

 

 

Nella storia della Repubblica, in epoche politicamente diverse e lontane, sono stati due i partiti di centro capaci di dominare la politica: Democrazia Cristiana e Forza Italia. La Dc resta l’esempio illuminante di un grande partito interclassista a cui gli italiani si affidarono per decenni votandola come partito della Provvidenza: fu insieme il governo, il centro, il correntismo, la mediazione, l’interclassismo, l’unità dei cattolici e l’anticomunismo, un partito-Stato che diede all’Italia una solida generazione di statisti spesso in lotta tra loro. Forza Italia ne raccolse in qualche modo l’eredità, facendo da argine al comunismo sconfitto e impedendogli di salire al governo, ma ne ha anche rappresentato politicamente l’opposto, identificandosi totalmente nella figura di Silvio Berlusconi, il suo leader indiscusso. È comunque indubbio che questi due grandi partiti abbiano incarnato politicamente, sia pure in modi diversi, il «centro». Poi, fra gli oltre 60 tanti tentativi di imitazione della Dc, solo l’Udc è sopravvissuta, sia pure ridotta ai minimi termini. L’agognata risurrezione del centro ha vissuto negli ultimi anni anche di autentici paradossi: è stato perfino teorizzato che il movimento populista per eccellenza, i Cinque Stelle, quando raccolse il voto di un terzo degli italiani, poteva essere il «nuovo partito di centro» del Duemila. Un’assurdità politica e storica.

 

 

Ora, con Forza Italia ormai al tramonto, i numeri dicono che la forza di riferimento dei moderati sta diventando Fratelli d’Italia, che può contare su una leader capace di andare molto oltre i confini del voto di Destra. Una capacità attrattiva appartenuta per lungo tempo a Berlusconi e per una breve stagione prima a Renzi e poi a Matteo Salvini, che non hanno però saputo dare seguito ai rispettivi exploit elettorali. Renzi ora ci sta faticosamente riprovando in tandem con Calenda, ma la vera occasione di far nascere un grande centro moderato e liberale nel segno del riformismo la perse dopo il referendum costituzionale del 2016, quando non ebbe il coraggio di mettersi a capo del Partito della Nazione, preferendo restare alla guida del Pd e uscendone poi fuori tempo massimo. Il verdetto politico sul futuro di questa riedizione del centro arriverà fra un anno, alle Europee, ma intanto l’ambizione di condizionare il bipolarismo in questa legislatura sembra essere già svanita.

 

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