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Messaggio a Calenda: la politica è prima di tutto comunicazione

Domenico Giordano
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Carlo Calenda avrebbe dovuto assimilare da tempo una lezione sintetica ed essenziale che nessun leader, oggi molto più di ieri, può eludere senza pagar pegno: la politica è prima di tutto comunicazione. E la comunicazione dovrebbe essere maneggiata con attenzione e rispettandone alcune regole. La politica, in particolare quella leaderizzata che viviamo oggigiorno, è essenzialmente comunicazione, anzi, lo è talmente tanto che in molte circostanze il messaggio e i modi per trasmetterlo acquistano essi stessi una dignità politica. Faccio giusto due esempi per intenderci meglio: la rottamazione dell’allora classe dirigente del Pd divenne da semplice narrazione renziana utile a scalare il partito a vera e propria policy che segnò una stagione politica e di governo. Oppure, in tempi ancora più recenti, la fortunata formula lanciata da Beppe Grillo dell’uno vale uno, ben presto è mutata in un generico passe-partout funzionale per dare una parvenza di autorevolezza e infondere un’overdose di consenso a qualsiasi politica che volesse denunciare o censurare una disuguaglianza, dei diritti o delle opportunità. È questo l’errore di prospettiva nel quale cade, volutamente o meno, il leader di Azione quando scrive, e poi ribadisce nella lettera al Corriere, che in Italia «negli ultimi decenni è prevalso il voto contro, a cui da ultimo si è affiancato il voto per moda: consensi fondati sul nulla e che rapidamente tornano al nulla appena i protagonisti vengono a noi, agli elettori. Il voto è diventato per una parte della popolazione l’equivalente del televoto al Festival di Sanremo».

 

 

Una posizione ragionata quella di Calenda, tanto da sentire addirittura il dovere di rimarcarla dopo la prima enunciazione, e non certo una conseguenza per i deludenti risultati ottenuti alle regionali in Lombardia e nel Lazio. Solo che Calenda pur partendo da una constatazione fattuale, ampiamente codificata da numerose ricerche socio-antropologiche che hanno raccontato il passaggio nelle società digitali dal voto devoto al voto volatile, finisce per rimanere imprigionato nella ragnatela della sua stessa narrazione. La sua ricerca spasmodica di una diversità a prescindere rischia di farlo diventare altro. Un leader spocchioso e arrogante, un politico supponente e altezzoso. La necessità di dover alimentare la credibilità di un ruolo, quella di generare sempre nuovi contenuti da dare in pasto al posizionamento dell’essere e descriversi come il solo leader politico differente, l’unico sincero fino alla fine cascasse il mondo, un leader senza remore o riserve nell’affermare la verità assoluta e incontrovertibile, che prescinde dalle ragioni di parte o dalle ipocrisie di convenienza, rischia di portarlo sull’isola dell’incomunicabilità, il camposanto che ogni leader vorrebbe evitare o allontanare da se il più possibile.

 

 

«Combattere questa deriva – scrive ancora Calenda – è precisamente la ragione per cui faccio politica», solo che nel suo caso il posizionamento scelto –l’alterità dagli altri leader quale crisma della sua autorevolezza – si sta divorando anche la politica pedagogica e di scopo che il leader del Terzo polo dice di prefiggersi come stella polare. La comunicazione politica, scrive Giampiero Mazzoleni che la studia e l’insegna all’Università Statale di Milano, è in sintesi «lo scambio e il confronto dei contenuti di interesse pubblico politico prodotti dal sistema politico stesso, dal sistema dei mass-media e dal cittadino», quindi una costruzione che nasce da una cessione multilaterale di posizioni, da una dialettica inclusiva, insomma l’esatto contrario di quanto invece di quanto sta facendo Carlo Calenda.

 

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