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Governo, è già partito il sabotaggio delle riforme costituzionali

Riccardo Mazzoni
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Il leit-motiv di diversi commenti sulla riforma presidenziale - che la premier ha posto tra le priorità di quest'anno - è la riproposizione di un antico pregiudizio etico-politico: per il bene del Paese sarebbe meglio che il grande passo verso il cambio di sistema istituzionale non avvenisse per iniziativa di una destra sempre rimasta ai margini della Costituzione ed erede di una tradizione estranea ai valori fondativi della Repubblica. Dando per valida questa premessa, diventerebbe secondario anche il fatto, pur democraticamente decisivo, che il centrodestra ha vinto le elezioni con l'impegno di dare corpo e sostanza alla grande riforma più volte tentata ma sempre abortita in ormai quarant'anni. La partita non è ancora iniziata, insomma, ma è già in atto una melina preventiva per dichiarare l'impraticabilità del campo, e qualcuno ha già tentato di arruolare in questa schiera di frenatori anche il presidente della Repubblica, che nel discorso di fine anno ha voluto esaltare «la bussola della Costituzione». Una tirata per la giacca impropria, giacché è la Costituzione stessa a prevedere le forme e i modi per essere riformata, e sulla necessità di una revisione della sua seconda parte c'è stata negli anni una larga convergenza tra i costituzionalisti, oltre che un profluvio di atti parlamentari di ogni sponda.

 

 

È pacifico che una modifica epocale della forma di governo sarebbe auspicabile avvenisse con un ampio concorso parlamentare, e infatti la premier ha proposto una Bicamerale per coinvolgere a pieno titolo le opposizioni, che però sono profondamente divise tra loro, con i Cinque Stelle sulle barricate, il Pd pronto a rinnegare la sua vocazione semipresidenzialista, e il terzo polo disposto a vedere le carte ma solo per discutere il premierato forte. Una babele difficile da ricomporre, come del resto insegnano i passati fallimenti, ma il centrodestra questa volta ha il diritto e il dovere di provarci, in virtù del forte mandato elettorale ricevuto, e non è un attentato alla democrazia avvertire che se la sinistra si metterà di traverso la maggioranza proverà a procedere da sola. Anche perché, se la riforma non passerà con la maggioranza qualificata prevista dalla Costituzione, sarà ineludibile il referendum confermativo, e la parola definitiva spetterà al popolo italiano. È un vecchio vizio della sinistra quello di appigliarsi alla democrazia in pericolo quando non vince le elezioni o non riesce comunque ad approdare al governo grazie alle manovre di palazzo di cui è maestra: partendo dal presupposto della superiorità morale, esisterebbe una Costituzione materiale secondo cui «la destra», anche quando a guidarla è stato un partito di centro come Forza Italia, è sempre ontologicamente delegittimata a guidare il Paese. Ergo: anche questa legislatura dovrebbe espungere dal suo orizzonte le riforme istituzionali.

 

 

Lo si evince scorrendo prese di posizione ed editoriali del fronte contrario al presidenzialismo. C'è chi lo definisce un sistema alieno dalla storia d'Italia, e per questo improponibile, un gioco da apprendisti stregoni che per copiare Parigi ci porterebbe a Mosca: ovvero, se il progetto Meloni andasse in porto, la svolta autocratica sarebbe alle porte. Insomma: «L'interesse della destra non coincide con quello del Paese». Ma anche sull'unica apertura finora registrata, quella sul premierato, i difensori a oltranza della Costituzione intangibile riescono a dividersi: c'è infatti una corrente di pensiero secondo cui andrebbe rafforzato il ruolo del presidente del Consiglio, trasformandolo in un cancelliere sovraordinato rispetto ai ministri e stabilizzato dalla sfiducia costruttiva, salvaguardando così «la preziosa funzione neutra del capo dello Stato». Tesi confutata però da chi prefigura «l'impossibile convivenza tra un premier eletto dal popolo e una controfigura di presidente di investitura parlamentare» che darebbe vita a «un conflitto permanente, dominato dal premier». È un gattopardismo alla rovescia, dunque: nulla cambi perché nulla cambi.

 

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