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Pelé è l'ultima icona non “artificiale”: un eroe imperfetto e quindi umano

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Nuccio Bovalino
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Il mito di Pelè viene consegnato alla Storia a distanza di qualche giorno della fine dei discussi mondiali di calcio in Qatar. La morte di un mito accende inevitabilmente una riflessione sul contesto storico dentro il quale è nato e, di contro, sul tempo che gli dà l'ultimo saluto mentre lo stesso ci lascia. Pelè è l'emblema di un tempo in cui la costruzione di un mito era ancorata al racconto immaginifico, alimentato da un sentire quasi mistico e da leggendari episodi consumatisi lontano dagli occhi della massa. Lo sguardo non era l'unico mezzo privilegiato per catturare la bellezza da cui trarre un romanzo sociale. Era la distanza a rendere l'icona tale, considerata al pari degli dei dell'Olimpo che solo occasionalmente si mostravano agli uomini come prezioso prodigio. Quella di Pelè è una favola nata nella periferia del pianeta e del calcio, fatta di migliaia di gol, per la maggior parte sottratti all'occhio mediatico. È l'assenza del tangibile e del visibile a creare un mito. Questa mitologia dell'assenza lo rende paradossalmente universale. Pelè è uno dei primi veri miti glocal. Appartiene al Brasile ma è celebrato come icona globale.

 

 

Le icone di oggi sono spesso delle figurine usa e getta. Miti transitori ed effimeri. Li fagocitiamo così come facciamo con gli oggetti di consumo. Moda che passa e trapassa ogni fugace forma. Nella caotica somministrazione di immagini, finiscono presto rottamati dall'ennesima «next big thing», la nuova icona da promuovere e da cui far fruttare estemporanei guadagni. Pelè è stato un personaggio caro a Dioniso. Flirt con il potere e vita sregolata. Avido di donne e prodigo di figli, quanto di gol. Apparteneva al tempo delle icone scorrette, disinteressate ai patentini progressisti e poco attente a non intaccare la propria immagine. La dimensione privata era una appendice di un racconto pubblico talmente di spessore che non vi era bisogno di aderire alla morale dominante. Il loro compito era emozionare. Con le gesta, il dinamismo e le linee poetiche dei suoi movimenti, Pelè disegnava un sogno che si moltiplicava fuori dalla cornice corporea, in una mitopoiesi infinita. È stato il tempo, quello di Pelè, dell'eroe imperfetto perché umano. Maradona ne ereditò la grandezza, ma fu vittima della insorgente «società dello spettacolo», capace di scarnificarne la corporeità atletica e il genio, sacrificandolo sull'altare del buonismo incrementato dalla dimensione mediatica, invasiva e intrusiva. El Pibe divenne l'emblema del mito denudato e svelato nelle proprie debolezze. Offerto al ludibrio pubblico, il suo genio fu oltraggiato per quelle fragilità umane divenute un ghiotto pasto per la società bulimica, affamata di tutto ciò che è indigesto.

 

 

L'icona d'oggi non vende sogni, ma gadget e merchandising. È imperfetta, ma con un buon manager pronto a riabilitarne l'immagine. È l'icona artificiale: ha una famiglia perfetta creata a immagine e somiglianza del format richiesto dalla società, fa le dichiarazioni che il mainstream pretende e mette in scena lo spettacolo più funzionale allo share e all'aumento dei follower. Viviamo il tempo delle icone anestetizzate. Noi comuni mortali, nel mentre le aduliamo, percepiamo però, nel profondo del cuore, di partecipare a un teatro asettico dove recitano dei miti prêt-à-porter. Bramando, però, nel silenzio, l'irregolare e una inattesa eresia che ci scuota dal torpore in cui ci costringe il tempo dei perfetti e dei «migliori».

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