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Il Qatar, i diritti e il moralismo nel ... pallone

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Santi Bailor
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Sono passati più di dieci anni da quando fu decisa l'assegnazione dei Mondiali di calcio al Qatar, era il dicembre 2010. Per questo colpisce che alla vigilia della partita inaugurale di domenica, fiocchino critiche, servizi e dichiarazioni indignate per la questione dei diritti umani in Qatar. Le critiche sono il sale della libertà, i diritti e il loro rispetto ancor di più ma accorgersene a scoppio ritardato non aiuta granché a migliorare la situazione, se non a consolarsi con il moralismo della serie: «Noi lo abbiamo detto però». Il calcio è spettacolo ed i Mondiali ne sono la sintesi più globale e forse romantica (con l'orgoglio delle nazionali in campo) ma pretendere che il pallone porti democrazia e libertà, quasi fosse una rivoluzione politica, è puro strabismo. Può sensibilizzare, in alcuni casi. Ma rivoluzionare no.

 

 

In passato, del resto, lo sport ha incrociato grandi eventi organizzati da Paesi per nulla democratici che ci hanno costruito sopra propaganda e comunicazione. Basti pensare alla Coppa Davis di tennis in Cile nel 1976, all'epoca di Pinochet, ai Mondiali di calcio in Argentina del 1978, al tempo della dittatura della giunta militare o alle Olimpiadi del 1980 in Urss, con gli Usa che boicottarono l'evento per protesta contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan. Diapositive dal passato che però, anni fa, al momento di assegnare i Mondiali non hanno innescato riflessioni particolari. Nel calcio si direbbe un'occasione mancata.

 

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