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La speranza è che il Pd non soffi sul fuoco della contestazione studentesca

Riccardo Mazzoni
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Dai tempi della Pantera, è sempre stato novembre il periodo in cui inesorabilmente scattava la scintilla delle occupazioni, quasi sempre strumentali e messe in atto da minoranze organizzate di sinistra con le motivazioni più varie e col colpevole lassismo di presidi e professori. Dopo le chiusure imposte dalla pandemia, il fenomeno si ripropose nel 2021 soprattutto nei licei romani, e quella fu sostanzialmente la ribellione a due anni di «cattività domestica» e di privazione delle relazioni in classe, una tempesta perfetta per creare «una coscienza politica e un'istanza di cambiamento» e rivendicare una scuola più democratica, ma anche certezze sul futuro, agganciandosi alla protesta contro i cambiamenti climatici o ai rischi dell'alternanza scuola-lavoro. Nulla a che vedere con le okkupazioni sessantottine, che furono l'incubatrice di una violenza ideologica che avrebbe portato agli scontri di piazza degli anni di piombo, ma spesso il clima di prevaricazione ha imposto il blocco delle lezioni a discapito di una didattica già penalizzata dai lunghi mesi della Dad.

 

 

Ebbene, quest'anno la mobilitazione è partita con più di un mese di anticipo, questa volta da Milano, anticipata dal corteo dei Fridays for Future in cui il coordinamento dei collettivi ha annunciato un «autunno caldo di scioperi e occupazioni»: l'azione di forza è partita lunedì mattina dal liceo classico Manzoni, attraverso un'occupazione pianificata con un documento incentrato sui problemi di sempre: i disastri climatici, la crisi economica, il lavoro precario, la scuola che non funziona eccetera. Ma questa volta il Collettivo ha identificato un preciso bersaglio politico per dare un senso più compiuto alla lotta: «Ci prepariamo ad entrare in una fase pericolosa e repressiva, visti gli ultimi risultati elettorali». Con un avvertimento preventivo a Giorgia Meloni: «Vogliamo dirlo chiaramente, alla Meloni, a Confindustria, a chi ci reprime: non siamo più disposti a tirarci indietro...».

 

 

Dunque, rialzando vecchi steccati, i contestatori di ultima generazione danno già per scontato che il prossimo governo, in quanto di centrodestra, sarà sicuramente «repressivo», facendo proprio così il pregiudizio ideologico che il Pd ha diffuso a piene mani in campagna elettorale creando un clima di allarmismo democratico - usato come disperato appiglio per scongiurare la sconfitta annunciata - che si è rivelato un boomerang ma ha evidentemente fatto presa in qualche avanguardia giovanile. Riproponendo il vizio endemico della presunta superiorità morale e del disprezzo dell'avversario politico che è da sempre una malattia della sinistra, che ha partorito le peggiori riforme della scuola ma considera quelle del centrodestra ontologicamente illegittime. Basti pensare a quando il Pd fece sfilare i bambini col lutto al braccio nel primo giorno di scuola contro la reintroduzione del maestro unico, o quando Bersani salì sui tetti di un ateneo romano per protestare contro la riforma universitaria. Ora vedremo se, dopo l'inequivocabile responso elettorale del 25 settembre, il Pd soffierà di nuovo sul fuoco della protesta nelle scuole: sarebbe l'ennesimo errore, perché una classe politica responsabile dovrebbe semmai riflettere sul numero impressionante di studenti che arrivano al diploma finale con un livello di conoscenza molto basso. Una questione serissima, che è un atto d'accusa al nostro sistema scolastico, e che non si risolve certo alimentando le occupazioni politicizzate.

 

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