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Alla Festa del Pd la par condicio si rivolta contro chi l'ha imposta

Riccardo Mazzoni
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La Festa dell’Unità a Bologna senza bandiere del Pd è l’ultimo paradosso della legge sulla par condicio, che alla fine si è rivoltata contro chi la volle per mettere il bavaglio a Berlusconi. La decisione del prefetto va considerata comunque ineccepibile, visto che l'area dove si svolge la festa è uno spazio pubblico non compreso fra le aree destinate dal Comune alla campagna elettorale. Da qui la finzione, abbastanza grottesca, che in una festa di partito, in piena campagna elettorale, non si faccia propaganda, ma si parli del sesso degli angeli. La par condicio, peraltro, viene ormai sistematicamente violata da quando la principale palestra del confronto politico è diventata la Rete, dove ormai, a colpi di tweet, non viene nemmeno più rispettato il tradizionale silenzio elettorale. I colossi del web dovrebbero in teoria applicare il codice di condotta comunitario, e quindi rimuovere le notizie false, ma il discrimine tra legittima propaganda e fake è talmente labile da configurare una vera e propria censura liberticida. Aggettivo scelto non a caso, visto che lo usò Berlusconi proprio a proposito della par condicio, quando la sinistra prima ai tempi di Scalfaro, e poi con una legge del Duemila ancora più restrittiva, decise di arginare lo strapotere mediatico del Cavaliere, ignorando che le reti commerciali hanno interesse, anche in campagna elettorale, a non veicolare solo messaggi a senso unico. Berlusconi reagì in modo durissimo, affermando che quella norma «avrebbe alterato i risultati elettorali per l’effetto perverso di un meccanismo che sovverte il consenso liberamente e legittimamente espresso». In effetti, quella legge è stata una sorta di camicia di forza nella comunicazione politica, perché non consente di far capire i programmi, mettendo i candidati di un partito dello 0,1% sullo stesso livello di quelli dei partiti storicamente radicati, stravolgendo il principio stesso della rappresentanza politica.

Una distorsione del consenso che ha trovato nella tv di Stato, da sempre feudo della sinistra, le sue manifestazioni più gravi ed evidenti, con programmi di informazione che hanno assunto connotati politici, con conduttori che avrebbero dovuto essere come gli arbitri e che invece parteggiavano per una parte sola e con la clàque in studio a fare da contorno propagandistico. Per cui nel 2010 si arrivò alla decisione più drastica: la sospensione temporanea di tutti i talk-show di approfondimento sostituendoli con altrettante tribune elettorali. Una decisione obbligata, perché - come riconobbero anche molti corrispondenti della stampa estera – in nessun altro Paese al mondo avrebbero potuto andare in onda sul servizio pubblico trasmissioni come Annozero che attaccavano una parte politica senza soluzione di continuità. Quello fu sicuramente un vulnus all’informazione, ma anche una nemesi per il Pd, visto che la par condicio si trasformò in un silenziatore proprio per le bocche di fuoco al suo servizio, che in tutte le precedenti campagne elettorali avevano sempre bypassato la legge. Questo non impedì però ai pasdaran della sinistra di comparire ugualmente sulle tv private, in barba a leggi e contratti, e di organizzare al PalaDozza di Bologna una manifestazione di protesta trasmessa in diretta da Sky. Fatta la legge, trovato l’inganno. C’è da sperare, insomma, che questa sia l’ultima campagna elettorale segnata da una legge sbagliata concettualmente e ormai fuori dal tempo, che sancisce una surrettizia parità di accesso ai media ignorando la nuova realtà multimediale, in cui la competizione tra i partiti si svolge quasi tutta in rete. Anche perché abbiamo appena sperimentato i danni di questa concezione nei dibattiti su Covid e vaccini: è forse qui che il bilancino della par condicio ha fatto i danni più gravi.
 

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