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Il blocco navale al largo della Libia rischia di essere impraticabile

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Riccardo Mazzoni
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Giorgia Meloni insiste sull'idea del blocco navale per stroncare i traffici degli scafisti, e la dettaglia come «una missione europea, da concordare con le istituzioni comunitarie, per trattare insieme alla Libia la possibilità che si fermino i barconi in partenza». Il ragionamento una logica ce l'avrebbe, ma - bisogna essere realisti prefigura un percorso tutto in salita, sia per l'ostilità di Bruxelles che perla situazione libica, di nuovo sull'orlo della guerra civile. Così come servirebbe una difficile azione diplomatica per lo spostamento in Africa degli hot-spot e distinguere così in loco chi ha diritto allo status di rifugiato e chi va considerato invece un migrante irregolare.

«Blocco navale» è indubbiamente un efficace spot elettorale, ma rischia di rientrare nella categoria delle soluzioni semplici a problemi complessi, e quella migratoria è una crisi che intreccia questioni umanitarie, di sicurezza e divergenti interessi nazionali. La sinistra è subito insorta in base al diritto del mare e alle convenzioni internazionali, sostenendo che il blocco navale sarebbe a tutti gli effetti un atto di guerra e quindi illegale, a differenza di quello messo in atto nel '97 dal governo Prodi nel mare Adriatico per arginare l'esodo dall'Albania, perché in quel caso ci fu l'approvazione del governo di Tirana. Questa però è una mezza verità che non cancella la tragedia del venerdì santo, quando una nave militare italiana speronò un barchino di scafisti causando la morte di 81 migranti. Chi oggi quindi sostiene che se una nave italiana ne abbordasse una delle Ong fuori delle nostre acque territoriali sarebbe un atto di pirateria, forse dovrebbe interrogarsi su quell'episodio, per il quale la Corte europea dei diritti dell'uomo ritenne responsabile l'Italia. Nell'ultimo decennio l'Ue ha organizzato diverse missioni in funzione anti-trafficanti.

La Eunavfor-Med prevedeva, ad esempio, di procedere, nel rispetto del diritto internazionale, a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti di imbarcazioni sospettate di essere usate per la tratta di esseri umani. Era stata pianificata una prima fase in alto mare e un'altra nelle acque territoriali libiche, da attuarsi però solo in base a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e al consenso dello Stato costiero, condizioni che si rivelarono praticamente impossibili. La missione, infatti, fallì quasi subito, tanto che i pattugliamenti navali furono sospesi e si è arrivò al paradosso di un'operazione navale senza impiego di navi.

In realtà, per contrastare davvero il traffico di esseri umani sarebbe stato necessario attivare la fase 3, quella «volta a neutralizzare le imbarcazioni e le strutture logistiche» usate da contrabbandieri di armi e trafficanti. Ma, a maggior ragione, anche per quest' ultima fase ci sarebbero voluti il placet sia dell'Onu che del governo libico. Come si vede, i tentativi di attuare un blocco navale mascherato in realtà ci sono stati anche da parte dell'Ue, come quando fu discussa l'ipotesi, anch'essa fallita, di un embargo complessivo via terra, via aerea e via mare per fermare ogni interferenza esterna nella crisi libica.

Ma resta il macigno giuridico dell'articolo 42 dello Statuto dell'Onu, secondo cui «l'azione militare finalizzata a impedire l'accesso e l'uscita di navi dai porti di un Paese», viene considerata a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra. Tanto che l'ex ministra della Difesa Trenta dovette chiarire che la chiusura dei porti italiani decisa dal governo gialloverde non costituiva un blocco navale, per non incorrere in sanzioni. Dunque, considerare la proposta Meloni alla stregua del giudizio di Fantozzi sulla Corazzata Potemkin è solo una sinistra strumentalizzazione politica, ma per renderla credibile dovrà essere specificata un po' meglio.

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