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Elezioni, la strategia di Enrico Letta è un flop. “Campo aperto” senza futuro

Riccardo Mazzoni
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Chi semina raccoglie, recita la saggezza popolare, e visto lo stato confusionale in cui versa il centrosinistra, si evince che Letta dal suo ritorno in Italia ha seminato gramigna e ora raccoglie zizzania. Il suo campo aperto, ex campo largo, più che a un'alleanza politica assomiglia infatti a un ring dove volano colpi proibiti che non risparmiano nemmeno l'arbitro. Che sia un combattimento di wrestling odi pugilato vero lo sapremo a breve, ma comunque finisca - rottura definitiva o ennesimo pateracchio - il fallimento è conclamato, perché le strategie elettorali non si costruiscono all'ultimo momento in laboratorio, sostituendo l'elaborazione politica con il bancomat dei seggi, che peraltro scarseggiano. Enrico Letta era stato richiamato in servizio per restituire al Pd la centralità smarrita con la segreteria Zingaretti e le suggestioni pangrilliste di Goffredo Bettini, ma partì subito col piede sbagliato: quando era ancora autoesiliato a Parigi, a gennaio 2020, ruppe il suo lungo silenzio accusando il rivale Matteo Renzi di voler rovinare il Paese mandando a casa l'avvocato del popolo: «Serve un governo forte e netto - disse -e non può che essere Conte a guidare l'Italia in quest' anno, non vedo come possa essergli impedito». Un pronunciamento poi rinnegato in tempo reale, col Pd trasformato nel partito di Draghi, ma mantenendo sempre il cacciavite al servizio delle parole d'ordine grilline, nell'ostinata convinzione che l'unico orizzonte possibile fosse l'asse di ferro con i Cinque Stelle, nonostante il loro progressivo sfarinamento e la mutazione genetica di Conte da istituzionale a movimentista.

 

 

Una linea portata pervicacemente avanti a dispetto delle evidenze, con le intese locali per le amministrative e le primarie comuni in Sicilia, celebrate nonostante il clima di smobilitazione all'indomani della caduta di Draghi. Nelle partite per i sindaci, l'apporto grillino è risultato oltremodo marginale, ma Letta ha sempre voluto vedere solo il bicchiere mezzo pieno, coltivando l'illusione di conquistare gli elettori del Movimento in libera uscita strappandoli all'astensionismo. Dopo la vittoria di Verona nonostante fosse chiaro che lì era stato il centrodestra a suicidarsi, il segretario se ne uscì con un proclama tanto trionfale quanto improbabile: «Alla fine paga la linearità e la serietà: vinciamo perché la responsabilità è più importante di tutto. Il campo largo è stato preso in giro ma questa strategia paga». La stessa antifona suonata all'indomani del suo successo alle suppletive di Siena: «È la prova che si vince se allarghiamo, adesso può nascere il nuovo Ulivo: un centrosinistra moderno e anche radicale, nei comportamenti e nei temi».

 

 

In realtà, Letta non si è discostato dal canovaccio che - dopo la vocazione maggioritaria di Veltroni mandata in archivio - ha fatto del Pd una sorta di partito-Stato che esclude per principio la traversata del deserto all'opposizione. Eppure, nel suo primo discorso da segretario aveva assicurato che il Pd non sarebbe stato mai più il partito del potere e della stabilità a ogni costo, sempre pronto a governare anche a dispetto della volontà degli italiani. Una promessa rimasta però nel cassetto delle buone intenzioni: preso alla sprovvista dalla crisi del governo di unità nazionale per mano proprio di Conte, a cui aveva sempre perdonato tutto, e avendo limitato il perimetro della sua proposta politica alle battaglie sui diritti civili senza un autentico profilo riformista, Letta si è trovato ad improvvisare il campo dei «patti separati», che si sta rivelando però, oltre che un ossimoro, un'equazione impossibile. La compilazione delle liste sarà, questa volta più di sempre, un risiko sanguinoso, ma è soprattutto il tentativo disperato di tenere insieme Calenda e la sinistra radicale a proiettare all'esterno un'immagine devastante di precarietà politica, e quella di un segretario preda dei venti e degli eventi, senza una strategia che non sia quella ormai logora di impedire alle destre di vincere. Che è un modo per ribadire la vera natura ministeriale del Pd, partito del potere per il potere.

 

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