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Ius schoale, sulla cittadinanza agli studenti è importante evitare scorciatoie dannose

Riccardo Mazzoni
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Lo ius scholae in discussione alla Camera affronta una questione reale, quella dei minori immigrati di seconda generazione - sono quasi 900 mila, di cui il 65% nati in Italia - che frequentano le nostre scuole e ai quali verrebbe garantito un percorso accelerato per ottenere la cittadinanza italiana. La Cei, con un deciso e poco usuale intervento in favore della legge, ha invitato la politica a non affrontare il tema in base ai pregiudizi ideologici, ed è un invito da accogliere, perché alzare barricate, da una parte e dall'altra, sulla pelle di questi ragazzi, non è uno spettacolo edificante. Secondo i vescovi, la riforma della cittadinanza favorisce il riconoscimento e la partecipazione delle «seconde generazioni» alla vita del Paese, una posizione che si allinea quindi a quella storicamente tenuta dalla sinistra, che però si è sempre fermata a un passo dal traguardo - vedi ius soli e ius culturae pur disponendo sulla carta della maggioranza parlamentare. Il centrodestra finora è rimasto unito su una questione di principio basata anche su un dato di realtà: la cittadinanza non si ottiene attraverso le scorciatoie legislative, ma deve essere il punto di approdo di un percorso consapevole, unica garanzia di una vera integrazione.

 

 

La domanda dunque è se lo ius scholae, nel testo blindato che il Pd vuol approvare a tutti i costi entro la fine della legislatura, è in grado di darla questa garanzia. Il testo prevede l'acquisizione della cittadinanza da parte dei figli di stranieri nati in Italia o che frequentino un ciclo scolastico di cinque anni nel nostro Paese, o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Un automatismo che suscita legittimi dubbi, anche alla luce delle esperienze di altri Paesi europei, e che non tiene conto della difficoltà di integrare alcune comunità straniere, in particolare quella musulmana. Inutile girarci intorno: il problema che la sinistra non vuol vedere, e che sembra non interessare nemmeno ai vescovi italiani, è proprio la questione islamica. Se un ragazzo che ha compiuto positivamente un ciclo scolastico cresce in una famiglia in cui il padre tiene la madre nella soggezione prevista dalla cultura islamica, e in cui i precetti della sharia sono ritenuti prevalenti sulle leggi italiane, gli diamo ugualmente la cittadinanza? Non è il caso di inserire nella legge questo paletto fondamentale? Cioè che diventa cittadino italiano solo chi riconosce il primato della Costituzione sulla sharia? È davvero inutile un supplemento di riflessione rispetto al rapporto «tecnico» di causa-effetto previsto dal disegno di legge in discussione?

 

 

C'è un'altra evidenza, poi, che non può essere ignorata: cinque anni di primo ciclo non garantiscono purtroppo nemmeno l'integrazione linguistica: basta fare un salto nelle scuole di Prato, dove arrivano alle elementari bambini cinesi nati in Italia ma allevati dai nonni nel Paese di origine, e che non sanno nemmeno una parola di italiano. Una difficoltà che in certi casi permane anche nelle scuole secondarie di primo grado. Vogliamo dare la cittadinanza a chi non parla ancora la nostra lingua? È forse un pregiudizio ideologico porre questi problemi, o è solo un bagno nella realtà? Letta dunque, con lo stesso arroccamento ideologico che imputa agli avversari, sta ripetendo l'errore compiuto con la legge Zan, rifiutando ogni proposta migliorativa e mettendo in fibrillazione la maggioranza pur sapendo che al Senato non ci sono i numeri. La proposta di Forza Italia, che chiede di portare a un ciclo di otto anni, seguito da una valutazione di merito, il requisito per ottenere la cittadinanza, potrebbe aprire uno spiraglio di buonsenso. Fermo restando che l'acquisizione della cittadinanza non può che essere un atto volontario e arrivare dopo, non prima, l'adesione ai nostri valori e alla nostra cultura.

 

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