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Caso Cucchi, ecco perché sarebbe morto comunque

Le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Roma

Katia Perrini
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«Appare logicamente poco probabile che Cucchi si sarebbe salvato». Con queste parole la terza corte d'assise d'appello di Roma motiva l'assoluzione dei cinque medici imputati nel processo per la morte di Stefano Cucchi. La decisione è stata presa dai giudici nel luglio scorso, nell'ambito del processo di appello bis ai medici dell'ospedale Sandro Pertini che avevano avuto in cura il giovane, morto una settimana dopo l'arresto per droga, nell'ottobre del 2009. Cinque le persone coinvolte nel procedimento: Aldo Fierro, primario dell'ospedale romano, e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Secondo i giudici, però, i medici «hanno colposamente omesso di diagnosticare la sindrome da inanizione da cui il paziente era affetto, di inquadrare il caso nelle sue linee generali e, conseguentemente, di attuare i presidi terapeutici necessari». Stefano, sostengono i giudici è morto di «inanizione»: il colpo di grazia, sul quel corpo già debilitato dall'epilessia, la tossicodipendenza e le lesioni subite nel pestaggio dopo l'arresto, è stata la privazione di cibo e acqua. I giudici sostengono che Stefano sarebbe morto in ogni caso, ma aggiungono che tutti i medici che lo hanno curato dopo il 19 ottobre 2009, pur avendo a disposizione tutti gli elementi per diagnosticare la sindrome da cui era affetto, non ne hanno nemmeno sospettato l'esistenza e non hanno, pertanto, prestato le cure necessarie. Il nuovo tassello sul caso, ancora una volta poco utile a definire le responsabilità, arriva tre giorni dopo la consegna della perizia chiesta dal gip nell'ambito dell'inchiesta bis sul caso, che vede indagati cinque carabinieri. Secondo i periti, Cucchi non sarebbe morto per le lesioni ma la sua sarebbe stata una «morte improvvisa ed inaspettata per epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti-epilettici». I responsabili della perizia aggiungono che «le lesioni riportate da Stefano Cucchi dopo il 15 ottobre 2009 non possono essere considerate correlabili casualmente o concasualmente, direttamente o indirettamente, anche in modo non esclusivo, con l'evento morte». I CINQUE CARABINIERI INDAGATI PER IL PESTAGGIO - Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm. Secondo l'indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. DALL'ARRESTO ALLA MORTE: TUTTO IN UNA SETTIMANA - Stefano Cucchi viene arrestato il 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, intorno all'1.30, i carabinieri lo accompagnano a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell'udienza del processo per direttissima, Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l'arresto e fissa una nuova udienza. Nell'attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente e, il 17, viene trasportato all'ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l'ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l'autorizzazione per vederlo: il corpo pesa 37 chili e presenta evidenti segni di percosse. Cominciano le indagini. QUASI SETTE ANNI DI INDAGINI E PROCESSI - Nel gennaio 2011 vengono rinviate a giudizio 12 persone: sei medici dell'ospedale Pertini, tre infermieri dello stesso ospedale, e tre guardie carcerarie. Nel giugno del 2013 la terza corte d'assise condanna cinque medici e assolve gli altri imputati. Nel 2014, nel processo d'appello, gli imputati vengono tutti assolti, e nel dicembre del 2015 la Cassazione decide per un nuovo processo d'appello ai cinque medici, che si conclude con una nuova assoluzione. A fine 2015, nell'ambito dell'inchiesta bis della procura di Roma sul caso, vengono indagati i cinque carabinieri.

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