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di Francesco Perfetti È forse un segno del destino il fatto che, proprio ieri, all'indomani del varo del "pacchetto SalvaItalia" (così ha definito Mario Monti la manovra economica), siano stati inaugurati una mostra documentaria e un importante con

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Quandofu chiamato per la prima volta alla guida del dicastero delle Finanze nel 1862, Sella era molto giovane - trentacinque anni appena essendo nato nel 1827 - ma era comunque uno scienziato già affermato e un uomo di punta del mondo della cosiddetta "destra storica" apprezzato anche dagli avversari. Persino quella malalingua di Ferdinando Petruccelli della Gattina, nel sulfureo pamphlet «I moribondi di Palazzo Carignano» - malgrado fosse d'altre idee politiche - fu costretto a tesserne un elogio: «Il signor Sella parla benissimo, da uomo competente e sicuro di ciò che dice. Io l'ho udito trattare quistioni d'industria, di tariffa, di libertà industriale, di macchine, di finanza con un ingegno rimarchevole ed una lucidità poco comune. Possiede molte lingue; ha viaggiato in Europa per investigazioni scientifiche. È giovane cortesissimo e semplicissimo». Negli anni durante i quali fu ministro delle Finanze - nei governi Rattazzi, La Marmora e Lanza - si pose l'obiettivo del raggiungimento del pareggio del bilancio statale e non esitò a imporre provvedimenti impopolari, come la famosa e vituperata "tassa sul macinato", e ad attuare una rigida politica di economie e di sacrifici. È rimasta celebre una sua battuta pronunciata nel 1870 alla Camera quando dichiarò che, come ministro, avrebbe guardato le spese «colla lente dell'avaro». Per Quintino Sella, che si portava sulle spalle il peso di una tradizione familiare sobria e severa legata alle abitudini della sua terra alpina, non erano concepibili né una finanza allegra né la crescente espansione del debito pubblico. Contestava il ricorso continuo ai prestiti pubblici convinto com'era che quella prassi avrebbe finito per deprimere gli investimenti produttivi. Aveva un profondo senso dello Stato e un sano orgoglio nelle potenzialità dello Stato e nelle capacità lavorative e di sacrificio degli italiani. Tanto che non esitò, ricordando proprio queste doti, a rifiutare con sdegno la proposta di porre sotto tutela internazionale le finanze italiane. Fu l'uomo del rigore, ma anche dello sviluppo. E lo dimostra, per esempio, il fatto che non sostenne mai quelli che oggi vengono chiamati i "tagli lineari" tanto che non volle ridurre le spese né per l'istruzione né per le opere pubbliche nella convinzione, come disse in Parlamento, che «il lavoro e l'istruzione» sono «due grandi fattori dello sviluppo e della potenza economica del Paese». I polemisti dell'epoca gli affibbiarono epiteti ingiuriosi, ma, soprattutto, ingiusti. Lo chiamarono "amico del macinato" ovvero "grande tassatore", "affamatore del popolo" od anche "nemico della plebe", dimenticando che proprio grazie a lui e alla sua politica fu possibile raggiungere quel pareggio del bilancio che sembrava una chimera. In realtà, quest'uomo - che, dopo la caduta nel 1876 della Destra storica accettò di assumere anche la guida del partito diventandone il riferimento ideale - credeva nell'etica della responsabilità, nella moralità politica e nella necessità di una vita sobria. La sua stessa condotta personale fu ispirata a questi principi, tanto da aver fornito spunto per una ricca aneddotica sulla semplicità dei costumi e della vita privata. Fu, in poche parole, esattamente il contrario dei politici dell'Italia di oggi, degli uomini della "casta" e dei privilegi. Fu e rimane il simbolo dell'onestà e del sacrificio per il bene pubblico. Che se ne discuta proprio in questi giorni sarà, probabilmente, un caso. Un caso sul quale il neopresidente del Consiglio, Mario Monti, può riflettere. Magari, pensando (e glielo auguriamo) di diventare il Quintino Sella dei nostri tempi.

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