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Dossier top secret in un ufficio di Biden. Trump: aspetto il blitz dell'Fbi

Angela Bruni
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Come in una legge del contrappasso americano adesso è il presidente degli Stati Uniti Joe Biden al centro delle polemiche, dopo il ritrovamento in un suo ufficio di documenti riservati legati al tempo dell'amministrazione Obama. I file «classificati» sono stati trovati nel suo ufficio privato di Washington, assegnato dall'Università della Pennsylvania come professore onorario e occupato da Biden dal 2017 al 2019. La scoperta risale al 2 novembre, sei giorni prima del voto di metà mandato, 8 novembre, che ha visto i Democratici reggere l'urto dell'onda repubblicana. Cosa sarebbe successo se la notizia fosse stata data subito e non tenuta riservata per due mesi? La notizia, alla fine, è emersa e ha fatto il giro del mondo mentre il presidente si trovava a Città del Messico per partecipare a incontri di alto livello con il presidente messicano Andrès Manuel Lòpez Obrador e il premier canadese Justin Trudeau.

 

I Repubblicani hanno chiesto subito un'indagine, Donald Trump ha rivolto un appello all'Fbi a «perquisire le molte residenze di Biden e persino la Casa Bianca», mentre il figlio del tycoon, Donald Jr., ha ironizzato su Twitter: «Fino a ieri tenere documenti era da pena di morte, ho l'impressione che adesso tutto cambierà». Il fatto che documenti riservati fossero finiti fuori dalla Casa Bianca, e non consegnati ai National Archives, gli Archivi di Stato, come stabilisce la legge, ha fatto sollevare dubbi sul modo di gestire documenti sensibili, ma la gestione del caso è diversa rispetto a quella che ha coinvolto Trump. Il tycoon si era portato nel resort di Mar-a-Lago, Florida, centinaia di file riservati, decidendo volutamente di non riconsegnarli, inoltre ne aveva restituiti solo una parte dopo le pressioni dei funzionari dei National Archives. È stato poi necessario l'intervento degli agenti Fbi per recuperare il resto.

Nel caso di Biden c'è una doppia interpretazione: per i media conservatori, è un inciampo inatteso di Biden e questa gestione riservata della storia non è stata istituzionalmente perfetta. Per quelli progressisti è la prova dell'«azione impeccabile» del presidente. Il motivo? I legali hanno subito segnalato la presenza di documenti riservati, li hanno consegnati subito ai funzionari degli archivi di Stato, e il dipartimento Giustizia ha affidato l'indagine per capire come quei file fossero finiti lì a un procuratore federale di nomina trumpiana, al di sopra di ogni sospetto. Ma resta il fatto che i file fossero lontani dalla Casa Bianca e chiusi in un ufficio privato. «Non è cambiato niente nel nostro programma di viaggio - ha dichiarato un membro dello staff di Biden - Il presidente è concentrato sul summit e sugli incontri con i leader dei due Paesi vicini», cioè Messico e Canada. Se, però, i consiglieri e Biden abbiano discusso del tema, non è stato chiarito. Il presidente ha evitato di parlarne durante i vari spostamenti a Città del Messico, inseguito dal gruppo di reporter americani. Biden si è solo limitato a un sorrisetto, quando uscendo da un incontro è stato travolto da richieste di spiegazioni sul caso «dossier». Secondo la ricostruzione fatta dai media americani, Biden non sarebbe stato a conoscenza dei contenuti dei file, ma di avrebbe saputo della loro esistenza direttamente dai legali, a cui aveva affidato il compito di sgombrare e liberare l'ufficio di Washington. I documenti erano dentro un armadio, chiuso a chiave. La notizia è stata tenuta riservata per due mesi, e gli sviluppi dovranno emergere nelle prossime settimane. Del caso si occupa John Lausch Jr., procuratore federale di Chicago, scelto da Trump nel 2017. 

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