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Il flop del reddito di cittadinanza: spesi 26 miliardi per non creare lavoro

Pietro De Leo
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Fughiamo via ogni dubbio: vero che il reddito di cittadinanza, bonificando soldi freschi nel forziere personale dei beneficiari, ha garantito un efficace contrasto alla povertà specie nel periodo della pandemia. Per quanto, la povertà, non sia stata per nulla sconfitta, come voleva un racconto demagogico fatto di esultanze in terrazzino e semplificazione esasperata. S’era allo zenith dell’abbraccio del Paese con il Movimento 5 Stelle del gadgettismo elettorale giocato sulle pubbliche necessità ed emotività. Ora, però, siccome affiancheremmo volentieri a questo anche la pubblica memoria, ricordiamo che il reddito di cittadinanza avrebbe dovuto costituire uno strumento di inclusione al lavoro. In questo senso, dunque, missione fallita. Con effetti, peraltro, negativi. Così i circa 26 miliardi che dal 2019 al 2022 sono stati pompati per alimentare l’assegno non hanno creato nessun innesco nell’occupazione di chi aveva bisogno. Anzi, andando sui dati, l’Anpal nell’ottobre scorso segnalava che a circa tre anni e poco più dall’introduzione del beneficio, nemmeno il 19% dei percettori in grado di lavorare (18,8 per la precisione) aveva un impiego. Appena il 42,5%, invece, aveva sottoscritto il patto per l’impiego presso i centri.

 

 

Peraltro, nel novero di quanti hanno trovato lavoro non è nemmeno facilmente quantificabile chi lo ha fatto attraverso i centri per l’impiego e i navigator: secondo uno studio Inapp (Istituto di analisi politiche pubbliche) sarebbe appena il 4% del totale. Niente da fare, poi, per quel sistema digitale teorizzato da Domenico Parisi (il professore venuto dall’America e per un certo tratto alla guida dell’Anpal) per l’incrocio tra domanda ed offerta di lavoro. Nessun balzo in avanti per percorsi di formazione destinati ai percettori con bassissima formazione (che erano circa 2 su tre). Così come i Puc, progetti di utilità collettiva. Sono quei piani che i comuni avrebbero dovuto attivare per coinvolgere i percettori in lavori socialmente utili, ma soltanto un ristretta minoranza degli enti si è premurata di metterli in campo. Certo, non è colpa di nessun governo, ma anche questa lacuna si colloca nel novero di un sistema che non ha funzionato.

 

 

Così come non è certo trascurabile un altro aspetto: le frodi, le indebite percezioni. Certo, parliamo di circa l’1% rispetto alla platea totale di oltre 3 milioni e mezzo di beneficiari. E però il racconto delle violazioni, che hanno coinvolto killer di mafia, spacciatori, addirittura reduci del terrorismo rosso, ha fatto maturare l’idea, non proprio lusinghiera, di una quota di profittatori a scapito di chi lavora onestamente o soffre per l’indigenza vera. Così come, sul piano occupazionale, è emerso un altro nodo che ha alimentato, e non poco, il dibattito. Molte associazioni d’impresa, nel corso degli anni, hanno denunciato la difficoltà nel reperimento di manodopera stante l’effetto disincentivante dello strumento. Tesi, ovviamente, respinta al mittente dai sostenitori della misura. E però c’è un dato, di un recente studio Unioncamere, che pare suffragare la tesi dei critici: il mismatch per le posizioni di bassa o nessuna qualifica è arrivato al 34%. Prima dell’ingresso del reddito era del 19%. E non va trascurato, nel quadro complessivo, nemmeno il "lascito" di una procedure di infrazione Ue per via del requisito di 10 anni di residenza in Italia, che secondo la Commissione sarebbe discriminante.

 

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