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Stato ricco col caro benzina: in 5 mesi nove miliardi in più. Il fisco incassa e non ridistribuisce

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Filippo Caleri
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Nove miliardi in più per benzina e diesel in 182 giorni. È il costo aggiuntivo che gli automobilisti italiani hanno pagato per l'escalation dei prezzi al distributore secondo una ricerca dall'associazione dei consumatori Consumerismo No Profit e dal Centro Ricerca e Studi di Alma Laboris Business School. Che ha messo in evidenza che nello stesso periodo lo Stato ha incassato tra Iva e accise oltre 25 miliardi. Ma nelle tasche degli italiani è tornato ben poco. Comunque la si voglia mettere c'è chi paga sempre di più (i cittadini) echi comunque incassa cifre esponenziali (il fisco).

La guerra in Ucraina ci ha messo del suo, perché i prezzi di verde e del gasolio, erano già nella fase di rialzo dallo scorso ottobre per la ripresa delle attività economiche dopo la pandemia. Il governo avrebbe dovuto dunque intervenire prima. Ma con il bilancio pubblico in perenne crisi rinunciare a moneta sonante per il ministero dell'Economia resta sempre di difficile digestione.

I listini stabilmente sopra i due euro oltre per litro hanno reso ineludibile un intervento del governo sul punto. Lo stesso Draghi è sceso in campo per provare a fermare il rincaro stellare. Alla fine il provvedimento è arrivato, ha riportato giù il conto al rifornimento di circa 30 centesimi, ma solo per un mese. E considerato che il prezzo del petrolio continua a essere spinto all'insù dalle tensioni in Ucraina molti hanno bollato il decreto come insufficiente per alleviare la tosatura del portafoglio che, secondo calcoli della stessa ricerca hanno comportato su ogni famiglia un extra costo di 347 euro.

Insomma tanto rumore per poco. Il decreto taglia le accise, le tasse fisse sul prodotto, quella sulla benzina passa da 728,40 euro a 478,40 euro ogni mille litri, quindi 25 centesimi netti al litro. Sul diesel si passa da 617,40 a 367,40, anche in questo caso 25 centesimi al litro. A questo si aggiunge una minore Iva, o meglio l'aliquota è sempre la stessa, ma la base imponibile ridotta ha portato lo sconto verso i 30 centesimi al litro.

Il punto è semplice. Il risparmio c'è, ma è limitato nel tempo dunque un palliativo. Cosa diversa sarebbe tenere agli stessi livelli le accise anche nel futuro, cioè oltre il 30 aprile. E qui la faccenda diventa di politica economica. Già per fare questo il Tesoro deve sostituire il gettito che manca per la riduzione delle con altre fonti di finanziamento del bilancio pubblico. Sì, perché il fatto che paghiamo ancora la guerra in Abissinia e il terremoto del Belice quando ci si ferma a fare il pieno, è da sfatare. Con quegli incassi il Tesoro paga stipendi ai dipendenti o le fatture a chi costruisce scuole e ospedali.

Insomma gli incassi vanno nel calderone della spesa pubblica che, l'ex mister Forbici Carlo Cottarelli, ha provato a «segare» con scarsi risultati. Dunque per abbattere realmente il costo del rifornimento non ci sono scappatoie: osi riducono le spese (missione impossibile) o si fa deficit. Tradotto: si emette debito pubblico per sopperire alla diminuzione di gettito. Il nodo è sempre quello. Si può fare subito. Si quantifica quanto è l'ammanco generato dal taglio permanente delle accise. Elo stesso importo lo si sostituisce con denari presi a prestito. La cifra può essere riportata ufficialmente anche nel Documento di economia e finanza in preparazione che inizia a individuare i saldi del bilancio dell'anno da prendere a base per l'anno successivo.

La scelta è sì economica, perché mette ulteriore pressione ai conti pubblici, ma anche e soprattutto, politica. Già il nuovo debito che servirebbe a milioni di famiglie di andare a produrre ricchezza senza svenarsi, di trasportare merci senza rincari eccessivi sui prezzi al dettaglio, non è chiaro se la logica draghiana lo classifica tra «buono» o cattivo. Forse oggi per aiutare il Paese che rischia il collasso Draghi.

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