Grecia a un passo dal fallimento
Atene cammina sul filo del rasoio. Il default è dietro l'angolo mentre la Germania con l'assist della Francia continua a ribadire che non ci saranno aiuti aggiuntivi se il governo di Papademos non varerà le misure capestro di rientro del debito messe a punto dalla troika (Fondo Monetario, Bruxelles e Bce). Con il Paese in rivolta (ieri c'è stato l'ennesimo sciopero generale) il primo ministro Papademos ha rinviato ad oggi l'incontro con i principali leader politici che lo devono appoggiare nella manovra dolorosa. Per tutto ieri sera si è svolta la trattativa tra il ministro delle Finanze, Evangelos Venizelos con i rappresentanti della troika, per le nuove proposte da lacrime e sangue. Francia e Germania hanno intensificato il pressing sottolineando che il tempo per chiudere un accordo sta scadendo. Il presidente della Commissione Ue Barroso ha ribadito che nessuno vuole la Grecia fuori dall'Euro anche perché l'addio di Atene alla moneta unica costerebbe più che il suo salvataggio. «Vogliamo che la Grecia resti nell'Euro» ha affermato il portavoce della Commissione europea Olivier Bailly, e parla di «uno scenario speculativo e poco probabile ma che purtroppo esiste». Categorico il vicepresidente della Commissione, Antonio Tajani: «l'addio di Atene è un periodo ipotetico dell'irrealtà». Però nei corridoi dei palazzi di Bruxelles non si fa che parlare di default. Ha fatto scalpore una dichiarazione del commissario europeo, Neelie Kroes, secondo cui l'eurozona può sopravvivere a un addio di Atene all'Euro. «Quando un paese membro lascia non significa che allora l'intero edificio crollerà». Intanto il termine ultimativo del 13 febbraio si avvicina sempre di più. Senza l'approvazione dei provvedimenti - che includono una riduzione del salario minimo pari al 20% e il taglio di 150 mila posti di lavoro nella pubblica amministrazione - non potrà essere avviato il nuovo programma di salvataggio da 130 miliardi senza il quale Atene non potrà rimborsare i 14,5 miliardi di obbligazioni in scadenza a marzo. È necessaria anche l'intesa con i creditori privati, che accettando di perdere circa il 75% del valore nominale dei titoli ellenici dovrebbero consentire ad Atene di rispettare l'obiettivo di un calo del debito a livelli più sostenibili. Le stime di un calo del pil nel 2011-2012 rendono già insufficienti i 130 miliardi e già si pensa ad altri 15 miliardi che potrebbero essere reperiti chiedendo un contributo alla Bce: che, però, fa muro. C'è poi l'ipotesi, fatta balenare dal presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker, di un fondo speciale cui far confluire risorse per assicurare il pagamento degli interessi da parte di Atene. In sostanza un commissariamento in piena regola giacchè si toglierebbe ad Atene la libertà di decidere sulle risorse degli interessi sul debito. In serata si è fatta sentire il cancelliere Angela Merkel. «Non costringerò mai la Grecia a uscire dall'euro». Poi spiega che «una simile eventualità avrebbe conseguenze incalcolabili». Però insiste sulla «mancanza di alternative alle dolorose riforme per i greci. Non le abbiamo predisposte - ha spiegato la Merkel - per rendere le cose più difficili per la gente, che interesse avremmo a fare una cosa simile? Intendiamo arrivare a un punto in cui la Grecia, con l'aiuto europeo, potrà vivere con le proprie risorse. Nessuno intende costringere i greci a riformarsi dall'esterno». Intanto ieri è stata un'altra giornata di alta tensione nella capitale greca dove oltre 20 mila persone, nonostante una pioggia battente, si sono riversate nelle strade per esprimere tutta la loro rabbia contro le pesanti misure di austerity richieste al Paese dai creditori internazionali. La protesta di piazza, che non ha registrato nessun incidente grave, è concisa con lo sciopero generale di 24 ore, che ha paralizzato tutta la Grecia, proclamato dai principali sindacati del Paese: la Gsee (che raggruppa i lavoratori del settore privato), l'Adedy (cui aderiscono quelli del settore pubblico), e il Pame (vicino al Partito Comunista). Allo sciopero hanno preso parte anche i dipendenti delle imprese a partecipazione statale, quelli del settore della sanità e della pubblica istruzione. Chiusi anche i tribunali, le banche e le sedi delle Autonomie locali. I traghetti sono rimasti ormeggiati nei porti e quindi non vi sono stati collegamenti da e per le isole. Nella capitale si sono svolte due manifestazioni conclusesi entrambe con la consueta marcia di protesta fino alla centralissima Piazza Syntagma, davanti al Parlamento.